Riforma pensioni, i sindacati e i luoghi comuni

Tra i tanti luoghi comuni che infestano il dibattito sulla riforma delle pensioni ve n’è uno che riguarda i sindacati, i quali sarebbero ossessionati da questo problema per una ragione molto banale: gran parte dei loro iscritti, se non addirittura la maggioranza, sono pensionati. Come vedremo è un’illazione non vera: il cuore dei sindacati batte per i pensionandi ovvero per agevolare il più possibile e il prima possibile il pensionamento, incuranti degli andamenti demografici che tengono insieme due fenomeni con effetti devastanti: l’invecchiamento accelerato delle persone e la denatalità. 



Coloro che hanno attraversato l’agognata soglia – soprattutto se riscuotono una pensione più che dignitosa – cadono nella trappola dell’invidia sociale e spesso vengono indicati come se dovessero pagare il fio di aver avuto una vita lavorativa più fortunata di altri. Così sulle pensioni più elevate fioccano senza soluzione di continuità contributi di solidarietà che da simbolici sono divenuti sempre più pesanti. Ma le c.d. pensioni d’oro sono poche, hanno a loro carico una quota consistente del gettito Irpef dei pensionati. Se occorrono quindi nuove entrate dalle pensioni occorre sparare nel mucchio e prendere di mira un istituto che “paga” subito il conto (mentre gli interventi sui requisiti impiegano anno ad andare a regime): la rivalutazione automatica al costo della vita, che viene salvaguardata fino al livello dei trattamenti medio-bassi (di solito fino a 1.500 mensili lordi) e rimodulata o sospesa per un certo periodo di tempo su quelle di maggiore importo. È il modo più sicuro e rapido per ridurre la spesa pensionistica e realizzare delle entrate. 



Ovviamente l’asino casca sempre nel solito punto: sono consentiti dalla Consulta soltanto interventi temporanei poiché una misura che tutelasse in via permanente solo la rivalutazione automatica delle pensioni basse sarebbe viziata di illegittimità. È prevista una perequazione di carattere ordinario (ed è questa che subisce manomissioni e deroghe): la pensione è rivalutata per fasce; del 100% dell’inflazione fino a un importo pari a tre volte il minimo, del 90% da tre a cinque volte; del 75% sulle quote eccedenti. Ma questa “scala” ha subito tante variazioni nel tempo. Per non farla troppo lunga riportiamo le modifiche introdotte nel 2019 che vengono a scadenza a fine anno, quando dovrebbe tornare in vigore l’assetto ordinario delle tre fasce.



Riforma pensioni, rivalutazione 2019

Le vecchie regole (previste dalla legge 388/2000) prevedevano tre scaglioni: fino a tre volte il minimo, con rivalutazione al 100%, fra tre e cinque volte il minimo, con rivalutazione al 90%, e sopra cinque volte il minimo, con indice al 75%. Con le modifiche previste dalla manovra 2019, invece, gli indici di rivalutazione diventano meno favorevoli, con il salire della pensione (non cambia nulla fino a tre volte il minimo, nel qual caso si mantiene la rivalutazione piena). 

I nuovi scaglioni:

  • 97% fra tre e quattro volte il minimo, da 1.522 e 2.029 euro,
  • 77% da quattro a cinque volte il minimo, fino a 2.537 euro,
  • 52% fra cinque e sei volte il minimo, fino a 3042 euro,
  • 47% fra sei e otto volte il minimo, fino a 4059 euro,
  • 45% fino a 4566 euro (nove volte il minimo),
  • 40% per gli importi superiori.

Riforma pensioni: senza correttivi si torna ai tre “scaglioni Prodi”

Come ha ricordato Valentina Conte su La Repubblica, i nodi vengono al pettine. Se alla fine il tasso di inflazione per il 2021 sarà dell’1,5% – come stima la Nadef, il documento di economia e finanza appena aggiornato dal governo – in manovra dovrebbe finire una cifra attorno ai 4 miliardi per adeguare le pensioni nel 2022. E soprattutto un metodo per distribuirli, visto che quello triennale approvato dal primo governo Conte (M5S-Lega) nel 2019 scade il prossimo 31 dicembre. Dal primo gennaio 2022, senza correttivi, si torna ai tre “scaglioni Prodi”, molto più convenienti per i pensionati. Meno per i conti pubblici. Lasciare tutto com’è – le 7 fasce gialloverdi poi diventate 6 – costerebbe “solo” 3,9 miliardi, tornare a Prodi 4,4 miliardi: mezzo miliardo di differenza, non poco. Poi a fine anno verrà a scadenza anche una delle misure giustizialiste sempre varate dal Conte 1: il contributo di solidarietà sulle pensioni più elevate (ripetuto in modo più severo dopo la scadenza di quello precedente che per la Consulta doveva essere eccezionale). In questa circostanza la Corte ha preferito chiudere un occhio perché nessuno ormai se la sente di essere additato al furore pubblico come difensore delle pensioni d’oro, anche se è il guardiano della Costituzione. Comunque ha ridotto da cinque a tre anni il taglio previsto. E i tre anni scadano anch’essi il prossimo 31 dicembre. Che cosa farà il Governo?

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