Il fido scudiero di Matteo Salvini si è “sbottonato” in un’intervista su quanto il Governo intende fare in tema di pensioni. La linea generale è la stessa annunciata da Giorgia Meloni nel dibattito sulla fiducia e dal ministro Calderone nell’incontro con le associazioni imprenditoriali, sindacali e sociali (erano presenti 27 sigle): non c’è il tempo e non ci sono le risorse per predisporre una riforma organica delle pensioni; pertanto la questione è rinviata all’anno prossimo (presumibilmente con entrata in vigore nel 2024). L’obiettivo dovrebbe essere il trattamento riservato alle giovani generazioni che, come ha detto il Premier “rischiano pensioni inesistenti”.



L’intenzione è lodevole: vedremo se verrà riesumata quella pagliacciata della pensione di garanzia proposta dai sindacati per salvarsi la coscienza dei misfatti compiuti nell’interesse delle generazioni dei babyboomers o se dovremo aspettarci qualche cosa di nuovo. Non nutriamo molta fiducia: staremo a vedere. Intanto prendiamo atto che per il momento si faranno, forse, meno danni di quelli promessi durante la campagna elettorale. Che cosa succederà allora l’anno prossimo quando verrà a scadenza la soluzione ponte (quota 102) introdotta dal Governo Draghi?



“Avremo una Quota 41 con 61 o 62 anni per il solo 2023, come misura ponte verso la riforma organica che faremo il prossimo anno. Spenderemo meno di 1 miliardo per agevolare 40-50 mila lavoratori. Pensavamo anche a un bonus per chi resta a lavorare, ma la prudenza di bilancio ci induce a rinunciare”. Insomma, “adelante Pedro con judicio”. Si chiarisce così uno dei misteri mai svelati della dottrina Salvini: con quali requisiti si sarebbe potuto andare in quiescenza? I 41 anni di versamenti sarebbero divenuti una soglia minima da raggiungere necessariamente per ottenere la pensione? Se l’idea fosse questa pochissime donne – soprattutto nel settore privato – avrebbero potuto avvalersene, ma anche per gli uomini sarebbero sorti dei problemi, perché se si devono maturare per forza 41 anni di lavoro ciò può avvenire a un’età inoltrata o mai.



Nelle proposte della Lega, inoltre, è sparito il trattamento di vecchiaia che, tutto sommato, garantisce una certa flessibilità consentendo il pensionamento al raggiungimento di un’età anagrafica stabilita (ora 67 anni) a fronte di un anzianità contributiva minima (20 anni). Nello schema di Claudio Durigon la proposta per il 2023 si iscrive nella logica delle quote ovvero della somma di due requisiti minimi entrambi indispensabili: 61/62 anni di età e 41 di contributi.

Chi scrive rimane convinto che il pericolo dello scalone non esista o comunque non sia tale da determinare conseguenza pesanti per nessuno. Il sistema è costellato da numerose uscite di sicurezza che consentono di anticipare l’anticipo della pensione: Opzione donna per le lavoratrici (58/59 anni + 35 di versamenti, ma con l’applicazione del calcolo contributivo sull’intera anzianità di servizio); Ape sociale per i soggetti che a 63 anni di età e 30 o 36 di contributi, a seconda dei casi, versino in particolari condizioni di difficoltà personali o famigliari o svolgano mansioni ritenute disagiate; quarantunisti precoci (possono andare in quiescenza, cioè, con 41 anni di versamenti a qualsiasi età) se hanno acquisito almeno 12 mesi di contributi prima dei 19 anni e si trovino nelle medesime condizioni previste per ottenere l’Ape sociale. Va poi aggiunto che quanti lo abbiano maturato nei periodi in cui erano in vigore le quote (100 e 102) conservano il diritto a usufruirne in qualunque momento se non l’avessero già fatto. Infatti, lo stesso Durigon ammette, nell’intervista, che tutto questo gran daffare servirà “per agevolare 40-50 mila lavoratori”. Io però non ne sarei tanto sicuro.

Non è detto che una Quota 102 made by Durigon sia più conveniente di quella di uguale risultato introdotta per l’anno in corso nella Legge di bilancio (insieme a un florilegio di mansioni ritenute disagiate). La Fondazione Studi dei consulenti del lavoro ha ricordato, in una Nota, che la Quota 100 e la Quota 102 non richiedevano”solamente” il raggiungimento del requisito complessivo di 100 e 102 sommando età e contributi, ma obbligavano ad avere almeno 62 o 64 anni di età e 38 anni di contributi (nelle sole gestioni Inps). Tale rigidità impediva, ad esempio, a un lavoratore con 61 anni di età e 39 di contributi di accedere a pensione nel caso di Quota 100 o, ancora, a un lavoratore con 62 anni e 40 anni di contributi di anticipare il pensionamento con Quota 102. Nella proposta a cui sta lavorando Durigon vengono abbassati i requisiti anagrafici (da 64 a 61/62 anni), ma viene innalzato di tre anni quello contributivo (da 38 a 41). Ciò comporta che i soggetti che a 61/62 anni non avranno maturato 41 anni di contribuzione dovranno rimanere in servizio; ma insieme al requisito contributivo crescerà di ugual misura anche l’età anagrafica.

Non si dimentichi, poi, che fino a tutto il 2026 gli uomini potranno andare in pensione con 42 anni e 10 mesi e le donne con un anno in meno senza vincoli di età. Nel triennio in cui è stata in vigore Quota 100 sono stati più numerosi coloro che si sono avvalsi di questa via d’uscita che i quotacentisti. E lo hanno potuto fare perché sono arrivati a maturare quel consistente requisito contributivo a un’età inferiore ai 62 anni stabiliti per usufruire di Quota 100.

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