Salvo sorprese c’è un’ aria nuova nel disegno di legge di bilancio in materia di pensioni; poi, magari le soluzioni sono contorte, ma le finalità sono cambiate. Si sta passando da una narrazione secondo la quale chi aveva lavorato per alcuni decenni aveva diritto di essere risarcito andando in quiescenza il prima possibile senza alcuna penalizzazione. In senso contrario a ogni valutazione di carattere attuariale, nel sistema retributivo non valeva il rapporto tra il trattamento percepito e l’attesa di vita ovvero il tempo durante il quale sarebbe stata erogata la pensione; era sufficiente maturare il requisito a prescindere dall’età; di conseguenza che aveva cominciato a lavorare prima – a parità delle altre condizioni – era in grado di andare il quiescenza in età inferiore di un lavoratore che aveva iniziato a lavorare successivamente. Magari ambedue avevano un trattamento analogo, ma il primo lo riscuoteva per un maggior numero di anni.



Comunque il settore del pensionamento anticipato è stato sempre il più tutelato, dai sindacati innanzitutto, ma anche dai partiti populisti. Ovviamente nel tempo, con le varie riforme, sono state introdotte delle modifiche, spesso contrastate e rimesse in discussione appena possibile. L’opzione sperimentale per un triennio di Quota 100 con il contemporaneo blocco fino a tutto il 2026 dei requisiti del pensionamento anticipato ordinario a 42 anni e 10 mesi (un anno in meno per le donne) aveva l’obiettivo dichiarato di favorire il trattamento di anzianità. Infatti, nel contratto del governo Conte 1 era scritto a chiare lettere: “Daremo fin da subito la possibilità di uscire dal lavoro quando la somma dell’età e degli anni di contributi del lavoratore è almeno pari a 100, con l’obiettivo di consentire il raggiungimento dell’età pensionabile con 41 anni di anzianità contributiva, tenuto altresì conto dei lavoratori impegnati in mansioni usuranti”. La misura, poi, stava a cavallo di due obiettivi: uno a favore dell’anticipo della pensioni e l’altro a promozione dell’occupazione giovanile, secondo una logica di promozione dell’occupazione.



Finito il triennio di sperimentazione (funestato anche dalle conseguenze dell’epidemia), il meccanismo delle quote (nel caso 102: 64 anni + 38 di versamenti) ha assunto un’altra funzione: fare da ponte tra il pensionamento con i requisiti di Quota 100 e gli effetti del ripristino delle regole previste dalla riforma Fornero, perché emerse con chiarezza che quanti non erano stati in condizione di avvalersi di Quota 100 (62 anni di età + 38 di anzianità), avrebbero potuto andare in quiescenza solo maturando, se uomini, 42 anni e 10 mesi (un anno in meno se donne) oppure 67 anni di età, il requisito normale della vecchiaia. Ma il sistema delle quote si è rivelato rigido, anziché flessibile, per un motivo banale: la regola non era realizzare comunque la somma dei requisiti ma realizzarli entrambi. E non è detto che questo incontro avvenga nello stesso anno, anzi l’esperienza ha dimostrato che nella maggioranza dei casi ognuno dei requisiti, per ovvi motivi, seguiva il suo percorso. A consuntivo succede allora che se un soggetto deve lavorare ancora per maturare l’età prescritta, nello stesso tempo accumula più contributi e viceversa nel caso che non abbia ancora 38 anni di versamenti. Non è difficile capire che l’ingresso in campo di Quota 103 (62 anni + 41 di contributi) anziché favorire il pensionamento ha creato un ulteriore scalone di tre anni per quei lavoratori che in precedenza non avevano ancora raggiunto i 38 anni di anzianità contributiva (si chiama eterogenesi dei fini).



In questa Legge di bilancio Quota 104 (che sarebbe stata preferibile) o, in subordine, Quota 103 caricata di vincoli, disincentivi e rinvii entra a far parte di una diversa strategia, diversa da quella portata avanti finora. In modo rozzo l’obiettivo non è più quello di incentivare il pensionamento anticipato, ma di scoraggiarlo nel sistema misto, mentre per coloro che sono totalmente nel contributivo viene incrementato (con un po’ di pasticci) la condizione di adeguatezza (da 2,8 volte l’assegno sociale a 3,0) che consentirebbe l’anticipo a 64 anni. Ma la novità più importante sta (se confermata) in un altro punto.

L’operazione dei guastatori giallo-verdi aveva bloccato, nel 2019 fino a tutto il 2026, l’adeguamento automatico dei requisiti per il pensionamento anticipato ordinario a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e a un anno in meno per le donne: la principale misura per la sostenibilità nel tempo del sistema. Se tutto filerà liscio il blocco dovrebbe terminare alla fine del 2024. Di conseguenza dovrebbe rimettersi in moto il meccanismo dell’adeguamento automatico, salvo una riflessione di carattere più strutturale che finora è mancata. In ogni caso, la vera questione del sistema pensionistico, del mercato del lavoro e della stessa crescita economica è una sola: la crisi demografica nella morsa dell’invecchiamento e della denatalità. Un tema che, per fortuna, sta entrando a trovare un posto nel dibattito, anche se è troppo tardi per provare un rimedio. Alessandro Rosina, demografo dell’Università Cattolica e membro del Cnel, ha scritto che ci restano solo 15 anni di tempo.

Quando si tratta di pensioni, però, il diavolo ci infila sempre la coda. La riforma Fornero venne azzoppata sul nascere a causa della vicenda degli esodati, di lavoratori cioè che avevano concordato con le aziende degli esodi anticipati con extraliquidazioni parametrate agli anni che mancavano al pensionamento secondo le previgenti regole. A questi casi se ne aggiunsero, attraverso nove sanatorie, altri con motivazioni più discutibili, ma che consentirono l’accesso al pensionamento con i requisiti previgenti a circa 200mila lavoratori. Quali diventeranno gli “esodati” del 2024? Ormai sono già venuti allo scoperto con un fuoco di copertura che si annuncia implacabile, a cui difficilmente il Governo potrà resistere. Infatti, ha scoperto l’esistenza di un accorgimento – sopravvissuto all’azione di armonizzazione dei trattamenti pensionistici dei dipendenti pubblici a quelli di privati – che ha consentito, a termini di legge, come del resto tutti i privilegi – di ottenere degli importi pensionistici più elevati. Il giochetto è difficile da capire e da spiegare e chiama in causa la definizione di quota A e di quota B che comportano criteri differenti di calcolo per le due parti che, sommate, andranno a formare la pensione.

La quota A corrisponde al prodotto fra la retribuzione annua contributiva alla cessazione per il coefficiente della tabella “A” allegata alla legge 965 del 1965 relativo agli anni e ai mesi di anzianità al 31/12/1992. Tale coefficiente varia da 0,23865 per 0 anni e 0 mesi a 1,00000 per 40 anni e 0 mesi.

La quota B è determinata moltiplicando la retribuzione media pensionabile per l’aliquota risultante dalla differenza tra l’aliquota risultante dalla differenza tra l’aliquota corrispondente al servizio totale e l’aliquota già individuata al 31/12/1992.

Poiché le definizioni non aiutano a spiegare l’arcano, proviamo a cimentarci in proprio. Per i lavoratori del pubblico impiego iscritti alle gestioni confluite nel 1994 dal Tesoro all’ex Inpdap (poi all’Inps) le aliquote sono state in gran parte diverse e più generose rispetto a quelle vigenti nell’assicurazione generale obbligatoria. In particolare, i coefficienti di rendimento, per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche attribuiscono un rendimento tondo del 35% della base pensionabile per i primi 15 anni di servizio (ovvero 2,33% per ogni anno di servizio sino al 15° anno) a cui si aggiunge l’1,8% per ogni anno ulteriore di servizio sino al tetto, anche in questo caso, dell’80% della retribuzione pensionabile.

Per gli iscritti alle ex Casse di previdenza amministrate dal Tesoro (CPI, CPUG, CPS e CPDEL), cioè i maestri gli ufficiali giudiziari, i dipendenti del comparto sanità e degli enti locali. i vantaggi sono ancora maggiori. Vengono utilizzate per il calcolo previdenziale, infatti, le aliquote di rendimento contenute nella tabella A allegata alla legge n. 965/1965. La quota A identifica quella parte di pensione, calcolata secondo il sistema retributivo, relativa alle anzianità contributive maturate dal lavoratore sino al 31 dicembre 1992, cioè prima dell’entrata in vigore della Legge Amato (Dlgs 503/1992) con la quale il legislatore ha cambiato le regole di calcolo della pensione retributiva.
Questa Tabella prevede un aliquota di partenza (piede) del 23,865% con un’anzianità zero. In pratica nei casi di invalidità, inabilità, premorienza il dipendente, o gli eredi, hanno diritto a un trattamento pensionistico minimo del 23,865% dell’ultimo stipendio, anche con un solo giorno di servizio. La tabella, prevede, poi una crescita lenta per i primi anni, raggiungendo il 37,5% con 15 anni di contribuzione. Con la tabella B dei dipendenti privati saremmo comunque più bassi (15 x 2% = 30%). Ma si innalza, marcatamente, negli anni successivi arrivando anche a una percentuale del 4% per anno negli anni antecedenti i 40 anni di contribuzione. Per garantire, infine, il 100% al traguardo dei 40 anni di contribuzione a fronte dell’80% della tabella B (40 x 2% = 80%).

Peraltro il calcolo, in questo caso, non viene prodotto sulla media delle retribuzioni degli ultimi cinque anni, ma ha come utilizzo, per la base pensionabile, l’ultimo stipendio percepito dal dipendente. Per farla breve è sufficiente avere un solo anno di versamenti prima del 1992 (magari recuperando un solo anno di università) per avere una maggiorazione di oltre il 20% della pensione maturata.

Da questi confronti si comprendono le motivazioni che hanno portato i pubblici dipendenti a opporsi a una così evidente perdita previdenziale. I giuristi discuterebbero se si tratta di un danno emergente o – come credo – di un lucro cessante. Ma gli effetti sono comunque rilevanti; magari non sono tante le persone interessate, ma si faranno comunque sentire.

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