“Interlocutorio”: così un dirigente sindacale ha definito – con un tocco di diplomazia – l’incontro di ieri delle confederazioni sindacali con il Governo (rappresentato dal sottosegretario Claudio Durigon) in materia di pensioni. Il termine è appropriato perché sono anni che i sindacati e i vari Governi in carica hanno smesso di trattare sulle pensioni e si limitano a “interloquire” volteggiando tra tavoli tecnici e riunioni politiche che, a loro volta, rinviano più o meno i soliti temi a ulteriori sedute di approfondimento. Poiché si presume esservi continuità nell’azione dei Governi (anche se espressione di differenti maggioranze), ai sindacati potrebbe essere risparmiato di cominciare sempre da capo a ogni cambio di Governo e di dover rammendare le solite vecchie calze in presenza di un nuovo titolare del Lavoro.



A pensarci bene per trovare un accordo (definito pudicamente “verbale di sintesi”) di un qualche rilievo politico bisogna risalire al 28 settembre 2016, quando il Governo Gentiloni, subentrato a quello guidato da Renzi, il teorico della disintermediazione, volle mettere al sicuro la facciata della riforma Fornero, individuando però un insieme di vie d’uscita secondarie (il pacchetto Ape e dintorni) che fossero in grado di garantire un ventaglio di uscite anticipate “con altri mezzi” dal mercato del lavoro. Fu in quell’occasione che il genio italico riuscì persino a escogitare una classificazione di “lavoro disagiato” fino ad allora inesistente nella letteratura previdenziale, con l’obiettivo di individuare delle tipologie che non fossero usuranti ma un po’ più faticose del normale. Fu poi questo pertugio a essere aperto a dismisura anni dopo nella prima Legge di bilancio del Governo Draghi, mentre il sistema sperimentale del pensionamento per quote passava da 100 a 102.



Ma queste misure, secondo i sindacati, non risolvevano il problema di fondo: ovvero il superamento definitivo della riforma Fornero grazie a una riorganizzazione del sistema con i criteri e le modalità che avessero (ecco la parola magica!) carattere strutturale. Nella fantasiosa ricerca dei surrogati l’attenzione cadde anche su di una particolare forma di pensione – Opzione donna – introdotta nell’ordinamento all’inizio del nuovo secolo nel riordino operato dal ministro Roberto Maroni con uno scopo ben preciso: consentire, per un numero di anni definito, una sorta di pensionamento anticipato che potesse consentire alle lavoratrici di sottrarsi alla parificazione dei requisiti anagrafici a quelli degli uomini, a partire da 57 anni per le lavoratrici dipendenti e da 58 per quelle autonome, a condizione che il calcolo del trattamento fosse sottoposto al regime contributivo.



È ovvio che, man mano aumentava per le lavoratrici il requisito anagrafico, Opzione donna – per anni ignorata e negletta – veniva utilizzata da coloro che ne avevano le condizioni. E così, anno dopo anno, Opzione donna è stata prorogata, magari con qualche modifica, fino alla Legge di bilancio del Governo Meloni.

A questo proposito, per garantire un minimo di discontinuità, sono stati aggiunti dei criteri attinenti al numero di figli e talune condizioni personali dell’interessata, che hanno finito per snaturare l’impostazione originaria della norma. I sindacati che avevano guardato con fiducia alla vittoria di una maggioranza sovranpopulista, si sono imbattuti in questa novità, che riguarda un pensionamento. E devono cercare di recuperare le posizioni.

Il Governo nel primo incontro aveva fatto trasparire una qualche disponibilità. Ieri però non è stato ancora pronto a mettere le carte in tavola per quanto riguarda Opzione donna. Durigon, in maniera ancora vaga, ha tolto dal cilindro un’altra ipotesi che ha messo in imbarazzo i sindacati: considerare nell’età di pensionamento la maternità in tutte le tipologie di pensione. Non sarà per caso, la riforma delle pensioni, una moderna tela di Penelope? E i dirigenti sindacali non saranno forse eredi dei Proci? Quanto al Governo, il tergiversare sulle pensioni è un episodio importante di quel ravvedimento operoso (rispetto alle promesse elettorali) che Giorgia Meloni ha voluto adottare con profitto.

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