L’AUMENTO CHE SERVE PER EVITARE IL CROLLO DEL PIL
In un articolo pubblicato su Repubblica vengono ricordati gli effetti che l’impatto del crollo demografico, senza un aumento deciso della produttività, avrà nei prossimi 20 anni nel nostro Paese: “una discesa del prodotto interno lordo del 15% e del reddito pro-capite del 13”. Nel 2041, in particolare, ci sarà il picco di baby boomers in pensione e di cittadini anziani. La spesa previdenziale è prevista tra il 16,3% e il 18,3% del Pil. “Solo dopo il 2041 il fenomeno si attenuerà fino ad annullarsi per via del passaggio a miglior vita dell’enorme massa di baby boomers”. Per cercare di evitare il peggio si potrebbe anche varare una riforma pensioni “che imponesse di restare al lavoro oltre i 67 anni, politica che verrebbe giustificata dal previsto allungamento della vita attesa. L’esatto contrario di Quota 100. Ma anche continuando a lavorare fino a 69 anni, non riusciremmo a invertire la discesa del Pil e del reddito pro-capite”. Anche favorire una maggior partecipazione delle donne al mercato del lavoro non sarebbe d’aiuto: bisogna aumentare la produttività, spiega il quotidiano romano, per tornare a vedere il segno più davanti al Pil.
ESODATI, LA MAGGIORANZA È COMPOSTA DA DONNE
In un approfondimento di Radio Cusano Tv si è tornati a parlare oggi degli esodati creati dalla riforma pensioni targata Fornero e che ancora sono privi di salvaguardia. Una di queste 6.000 persone, Gabriella Stojan, è stata ospite di Matteo Torrioli e ha spiegato che la maggioranza degli esodati privi di salvaguardia è composta da donne che non hanno più avuto la possibilità, tramite un’occupazione, di far aumentare la propria anzianità contributiva, restando quindi obbligate ad attendere i 67 anni della pensione di vecchiaia quando sarebbero già dovute essere in quiescenza. Stojan ha ricordato le interlocuzioni avute con rappresentanti delle istituzioni, compreso Luigi Di Maio, allora ministro del Lavoro, che aveva promesso di risolvere la situazione degli esodati: una promessa che non si è però concretizzata e che non verrà mantenuta nemmeno nella Legge di bilancio che oggi verrà approvata in via definitiva dalla Camera. Non resta che sperare in un “ravvedimento” della politica con il decreto milleproroghe.
VESCOVI CONTRO QUOTA 100
La locomotiva d’Italia ha rallentato e rischia di fermarsi. Il riferimento è all’industria del nord, cui Affari & Finanza, l’inserto di Repubblica, ha dedicato ampio spazio, anche con un’intervista a Luciano Vescovi, Presidente della Confindustria di Vicenza, che ricorda gli errori di politica economica commessi dagli ultimi governi, citando anche la riforma pensioni con Quota 100. Secondo Vescovi, infatti, per cominciare a invertire la rotta occorre “prendere coscienza del fatto che un Paese indebitato come l’Italia non deve fare altri debiti. Soldi non ce ne sono più per nessuno. Quindi mi spiace ma occorre smetterla, ad esempio, con una sciocchezza come il salvataggio di Alitalia”. L’imprenditore segnala tra i problemi del Paese anche “il decreto dignità che ha reso più rigido il mercato del lavoro, quota 100 per le pensioni, il reddito di cittadinanza e altro ancora. I governi devono darsi obiettivi di medio lungo termine, e fare gli investimenti necessari per rispondere a una domanda: che Italia vogliamo far trovare ai bambini che nascono adesso quando, nel 2039, entreranno nel mondo del lavoro?”.
GLI EFFETTI DELLE MISURE DI RIFORMA PENSIONI
In un articolo su ilfriuli.it vengono illustrati i risultati di una ricerca svolta dall’Ires-Cgil del Friuli-Venezia Giulia su dati Inps, in cui si vedono anche gli effetti delle norme di riforma pensioni dell’ultimo decennio. “Il numero di pensionati in regione è in continua diminuzione dal 2008 a oggi, da quando il rapido processo di invecchiamento della popolazione è stato bilanciato dagli interventi legislativi che hanno progressivamente innalzato l’età pensionabile. Nel periodo 2012-2016, a seguito della riforma Fornero, tale tendenza decrescente ha subito una decisa accelerazione. Il numero di pensionati negli ultimi undici anni è complessivamente diminuito di 28.000 unità (nel 2008 sfiorava quota 383.000); in particolare la fascia degli ultra settantenni è aumentata di circa 36.000 unità, mentre nello stesso periodo quella con meno di 70 anni ne ha perse oltre 64.000”. C’è inoltre da evidenziare che “sempre nel periodo 2008-2019 sono diminuite soprattutto le pensionate donne (-8,8% contro il -5,6% degli uomini) e la provincia di Trieste ha subito la contrazione maggiore (-13,9%)”.
L’ATTESA PER I PEPP
Non c’è stata ultimamente molta attenzione nelle misure di riforma pensioni alla previdenza complementare. Il sito di Ipsoa segnala che “manca ancora qualche passaggio per la piena operatività dell’offerta di Pepp, il nuovo prodotto pensionistico paneuropeo individuale, sul mercato europeo. Si prevede che i primi Pepp possano essere commercializzati nel 2021”. Si tratterà di un passaggio importante perché, “come evidenziato dalla Covip, l’introduzione dei Pepp potrebbe costituire l’occasione per eliminare la potenziale penalizzazione fiscale dei fondi pensione italiani rispetto a quelli europei”. Intanto, ospite della trasmissione Tagadà, Giuliano Cazzola ha evidenziato come dal suo punto di vista la vera misura di riforma pensioni cui fare attenzione è rappresentata dal blocco dell’adeguamento all’aspettativa di vita per il requisito di accesso alla pensione di anzianità in vigore fino a tutto il 2026, in base a quanto stabilito dalla Legge di bilancio dello scorso anno, quella che ha anche introdotto Quota 100.
RIFORMA PENSIONI, LA MISURA TOLTA DALLA MANOVRA
Dalla Legge di bilancio sono state tolte alcune misure riguardanti il tema riforma pensioni e, come evidenzia Maria Grazia Gabrielli, Segretaria generale della Filcams-Cgil, “tra le promesse e gli impegni non mantenuti dalla legge Finanziaria ce ne è una che è ancora più inaccettabile perché penalizza prevalentemente le donne, il lavoro più fragile per ore lavorate e condizioni di reddito. Il governo e la maggioranza, dopo averlo presentato, hanno bocciato l’emendamento che prevedeva il riconoscimento dei periodi di sospensione ai fini dell’anzianità contributiva per le lavoratrici ed i lavoratori con contratto a part time verticale ciclico”.
IL PROBLEMA DEL PART-TIME VERTICALE CICLICO
Di fatto l’Italia continua a non recepire gli effetti di una sentenza della Corte di giustizia europea che comporta il riconoscimento dell’anzianità contributiva ai lavoratori part-time in base alla durata del rapporto lavorativo e non al numero delle settimane di lavoro concretamente svolto. E questo ha fatto nascere molte cause contro l’Inps “che vedono l’istituto soccombere sistematicamente con evidente dispendio di denaro pubblico anche per sostenere le spese di giudizio”. Come riporta il sito di Rassegna sindacale, per Gabrielli chi lavora con contratto a part-time verticale ciclico è spesso costretto a periodi di sospensione dal salario e attualmente deve “lavorare almeno 50 anni per maturarne 40 di anzianità contributiva per l’accesso alla pensione”. Una situazione cui il Governo aveva detto, d’accordo con l’Inps, di voler porre soluzione, ma questa non è arrivata.