RIFORMA PENSIONI: TRIDICO BOCCIA QUOTA 100 (E IL CONTE 1)

Il Prof. Pasquale Tridico è ormai un irrefrenabile critico delle misure che il Governo Conte 1 aveva varato e gli aveva affidato da gestire. Per il Reddito di cittadinanza (ricordiamo, in proposito, solerti studi che accompagnavano e giustificavano la tesi della scomparsa della povertà con tanto di grafici e di formule matematiche) il Presidente dell’Inps si limita a sostenere una tesi ormai di comune dominio (è fallito clamorosamente il tentativo di farne uno strumento di politiche attive del lavoro) mentre difende la funzione della prestazione economica che, a suo avviso, non è la principale responsabile della fuga dal lavoro nel settore turistico, che, a suo avviso, è piuttosto il risultato dei bonus erogati a pioggia. In un’intervista al Messaggero Tridico parlando di riforma delle pensioni ribadisce le osservazioni che, ormai da tempo, quasi con le stesse parole, rivolge a Quota 100: la prestazione imposta da Matteo Salvini con l’accordo del M5S è stata utilizzata prevalentemente nel pubblico impiego, dai percettori di redditi medio-alti, da uomini residenti nelle regioni settentrionali, comunque in numero inferiore alle previsioni e, soprattutto, non emerge che gli esodi anticipati abbiano sortito un effetto sostitutivo apprezzabile tra anziani in uscita e giovani in entrata. 



Peraltro sia dalle indagini della Corte dei Conti (si vedano i Rapporti sul coordinamento della finanza pubblica del 2019 e 2020), sia dal XX Rapporto dell’Inps è emerso un dato singolare: che l’ambo 62-38 è stato azzeccato da circa 30mila soggetti, mentre la gran parte dei “quotacentisti” se ne è andata in quiescenza con un’età media di circa 64 anni e un’anzianità intorno ai 41. È bene precisare che i due dati vanno considerati in maniera disgiunta. 



SINDACATI E RIFORMA PENSIONI: NO DI TRIDICO (ANCHE) A QUOTA 41

La novità nell’intervista di Tridico sta nella netta presa di distanza dalle posizioni dei sindacati, esposte nei giorni scorsi al ministro Andrea Orlando che le ha ascoltate in silenzio senza profferire commenti. Innanzitutto il Presidente dell’Istituto sdrammatizza, nei fatti, lo spauracchio dello “scalone” (da 62 a 67 anni a parità di contribuzione) agitato come una clava in sede sindacale, per giustificare l’urgenza di una riforma. “Per il dopo non partiamo da zero. Esistono – spiega Tridico – già nel sistema varie forme di anticipo, sulle quali bisognerebbe concentrarsi. I sindacati dicono di volere la flessibilità e propongono Quota 41, ma questa in realtà è una forma di rigidità, come del resto lo era Quota 100. Se si stabilisce una quota senza differenziare rispetto a lavori concreti e carriere viene fuori una misura iniqua. Quota 41 è iniqua ad esempio per le donne o i gravosi, oltre a essere molto costosa per il bilancio dello Stato”. 



E quali sarebbero le forme di anticipo a cui si fa riferimento nell’intervista? “Abbiamo uno strumento, l’Ape sociale, che andrebbe rafforzato facendo entrare altre categorie degne di protezione, ma sulle base dell’effettiva gravosità delle singole mansioni. E questo – colpisce a fondo Tridico – all’interno di un sistema contributivo che ormai è la regola. Nella visione della flessibilità io avevo proposto anche un doppio canale, uscita a 63 anni con la quota contributiva mentre la pensione completa scatterebbe ai 67. Un meccanismo del genere porterebbe sostenibilità per i conti pubblici e flessibilità; ma se non lo si adotta allora la via è quella degli interventi chirurgici come appunto l’estensione dell’Ape sociale e delle regole per i lavori usuranti”. 

LA VIA D’USCITA È L’APE SOCIALE?

Chi scrive può rivendicare un piccolo primato nell’aver sostenuto che l’Ape sociale (magari ripristinando anche la forma volontaria) sarebbe in grado di coprire, dopo la sua scadenza, lo spazio di utilizzo riservato a quota 100 con l’obiettivo di consentire misure di anticipo della quiescenza a 63 anni facendo valere, a seconda delle condizioni personali o familiari, 36 o 30 anni di anzianità di servizio. E a pensarci bene anche il ministro Andrea Orlando nell’incontro del 27 luglio ha lasciato intendere ai sindacati che è questa la linea che intende seguire il Governo: si rientra nei binari della riforma Fornero (salvo il blocco degli adeguamenti automatici per il trattamento di anzianità che – è difficile immaginare ripensamenti che pure sarebbero opportuni – arriverebbe alla scadenza prevista a fine 2026); si potrebbe aggiustare l’area di applicazione dell’Ape sociale per coloro che abbiano necessità meritevoli di tutela (dopo il Covid non sarebbe una misura priva di senso). 

RIFORMA PENSIONI E LA SOLUZIONE COSTOSA DEI SINDACATI: “QUOTA 41 COSTA 9 MILIARDI L’ANNO!”

Ma il colpo di grazia agli ex compagni di merende delle confederazioni sindacali viene inferto dal prof. Tridico mettendo mano al portafoglio. “La misura che propongono i sindacati (Quota 41, ndr) potrebbe costare fino a 9 miliardi l’anno, partendo da oltre 4 subito”. Che diventano 75 miliardi cumulati in dieci anni. Se volete – sembra dire Tridico – c’è la mia proposta. A 63 anni si prende in anticipo la parte di pensione calcolata col metodo contributivo; a 67 anni la quota del retributivo. Un modo indiretto per convincere i lavoratori più anziani – con tanto retributivo e poco contributivo – a soprassedere, salvo incamminarsi sull’uscita di sicurezza che porta all’Ape. 

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