Pensioni: l’opinione pubblica è vittima di una stregoneria che, negli ultimi anni, ha impedito di ragionare, di considerare taluni aspetti della sostenibilità di un sistema pensionistico che non sono soltanto materia per studiosi, professoroni e rigoristi al soldo delle multinazionali e dei poteri forti, ma dati di fatto evidenti, ineludibili. Invece, come in una comunità di ubriachi, hanno prevalso, da un lato, la propaganda, l’invidia sociale, dall’altro. Hanno avuto buon gioco i demagoghi, quelli che, falsificando la realtà, hanno inculcato in un popolo che vorrebbe andare in pensione il prima possibile fruendo di un assegno non inferiore a quello del bancario della porta accanto, la convinzione che quell’ambito traguardo era divenuto irraggiungibile per responsabilità di una professoressa minuta, competente che accettò di “metterci la faccia” in un Governo chiamato a scongiurare il default del Paese.



Si è fatto dunque il contrario di quanto sarebbe stato opportuno. In una fase storica in cui aumenta l’attesa di vita, non solo alla nascita, ma all’atto del pensionamento, si è abbassata l’età pensionabile. Si è voluto ignorare quella “catena di Sant’Antonio” che costituisce il finanziamento a ripartizione, in forza del quale le pensioni maturate ieri sono pagate dai contribuenti di oggi e di domani, ai quali sarà molto difficile onorare la promessa di un trattamento equipollente a quello che hanno dovuto garantire ai padri e ai nonni. Per effetto dell’invecchiamento e della denatalità la piramide demografica si è trasformata in un trapezio panciuto e rovesciato. Ma queste considerazioni sono state prima ignorate, poi calpestate.



La riforma pensioni della Fornero doveva essere abrogata. Non si sarebbe creata un’opinione pubblica sobillata se non avessero contribuito acriticamente i media soprattutto televisivi, in una società in cui la gente si informa davanti al teleschermo. Ma tutto ciò appartiene a un passato recente, nel commentare il quale il Governo e i suoi accoliti si rifiutano persino di riconoscere il fallimento di quota 100 e dintorni, non solo sul versante di creare occupazione mediante la messa in moto del turnover, ma anche su quello di realizzare il numero di adesioni previste, assunte come riferimento degli stanziamenti in bilancio.



In queste ore, in attesa del debutto del neo presidente Pasquale Tridico (che leggerà tra breve la relazione sul bilancio dell’Inps), un autorevole quotidiano economico ha anticipato presagi foschi sul futuro previdenziale degli italiani. Volendo, questo logoramento era stato notificato da osservatori nazionali e internazionali ancor prima che il Governo giallo-verde mettesse le carte in tavola. Ed era venuto pressante l’invito ad aggiustare le previsioni di spesa delineate in base alla riforma del 2011 in ragione di un quadro macro-economico peggiorato in pochi anni, in conseguenza sia della crescita inadeguata, sia dell’accelerazione dello squilibrio delle dinamiche demografiche, sia (udite! udite!) della riduzione dei flussi di lavoratori stranieri, rispetto a quelli indispensabili ai fabbisogni del mercato del lavoro. I consigli erano tutti rivolti a stringere i bulloni della riforma pensioni della Fornero (già debilitata dal ben 8 salvaguardie per esodati e da alcune modifiche normative); non certo a decretarne il “superamento”.

Verrebbe quasi da concludere – un po’ con la morte nel cuore – che la sentenza sul futuro dell’Inps appartiene al novero di quelle inappellabili. Le proiezioni (che non sono pubbliche, ma che il quotidiano ha potuto vedere) – al netto degli effetti economici di quota 100 e delle misure accessorie – fotografano quello che sta per accadere:il ritiro dal mercato del lavoro delle folte coorti dei baby boomers (che peraltro è stato colpevolmente incoraggiato e favorito proprio dall’attuale Governo). Un boomerang atteso da tempo (la demografia è quasi una scienza esatta), che spingerà in alto la spesa nei due prossimi decenni e i cui effetti sono stati in parte attenuati dalle riforme adottate tra il 1992 e il 2011.

Quanto cambieranno quelle traiettorie a seguito di “quota 100” e, se arriverà, di “quota 41”, al momento, non è dato sapere. La spesa pensionistica, da qui al 2040, scalerà una gobba che, a seconda delle stime, potrebbe variare tra il 16 e il 20% del Pil. E tra vent’anni la transizione demografica segnala che ci saranno 18,8 milioni di cittadini con 65 anni o più, secondo la proiezione centrale Istat, 5 milioni in più di oggi. Mentre la popolazione in età da lavoro (15-64 anni) si sarà ridotta a sua volta di 5 milioni (a 33,7 milioni).

Del resto anche la Ragioneria generale dello Stato era arrivata a delineare un quadro critico. Basta osservare nella tabella la dinamica crescente dell’attesa di vita, il raddoppio dell’indice di dipendenza degli anziani e il dimezzamento del saldo immigratorio (che incide anche sul tasso di fecondità).