Il Servizio sanitario nazionale è messo duramente alla prova nel fare fronte all’epidemia del Coronavirus. Finora le strutture ospedaliere sono state in grado di reggere – con molta fatica e con grandi sacrifici del personale – la sfida con competenza, professionalità e abnegazione. La velocità della diffusione del contagio è stata ed è ancora (nonostante i segnali di decrescita) la questione cruciale nella lotta contro il virus, nel senso che i malati richiedono, nei casi più gravi, terapie d’emergenza disponibili in misura limitata nei nosocomi. La controprova viene dalla Germania, il cui sistema sanitario è in grado di utilizzare 25mila posti letto in terapia intensiva ed è per questo motivo che ha un tasso di mortalità inferiore a quello di altri Paesi colpiti dal contagio, tra cui il nostro.



È la forte la preoccupazione di un collasso del sistema che indotto il Governo ad adottare misure d’emergenza consistenti in una generalizzata quarantena in tutta la Penisola, allo scopo di limitare il contagio e ridurre il numero degli infetti da ospedalizzare. Questa strategia era inevitabile; del resto viene seguita in tutti i Paesi colpiti. C’è però l’esigenza di compiere un salto di natura culturale. Il Coronavirus è ormai entrato a far parte del contesto della patologie a cui è soggetta l’umanità. Non lo si “affama” sottraendogli le prede, ma individuando delle cure per contrastarne gli effetti. Oggi, in nome del primato della tutela della salute, si sono messi in grande difficoltà i sistemi produttivi, paralizzati i mercati sia sul versante dell’offerta che della domanda. Ma quando – dopo aver messo milioni di persone in quarantena, fermate le fabbriche, massacrata l’economia – sarà guarito anche l’ultimo contagiato, si porrà il problema di ripartire. E si dovrà farlo perché il mondo sviluppato non può suicidarsi per evitare di ammalarsi. Ma il contagio sarà sempre in agguato. Il massimo che la scienza può fare consiste nella predisposizione di vaccini e di cure che aiutino a non morire.



Intanto il primo dovere è quello di un rafforzamento della “prima linea” impegnata nella battaglia (purtroppo difensiva) contro il virus misterioso: il personale medico e paramedico. Si sono assunte misure importanti: dal richiamo in servizio degli operatori in quiescenza a un piano straordinario di assunzioni di medici e infermieri, attraverso l’uso del rapporto di lavoro a tempo determinato, anche di medici non ancora abilitati. Qualcuno a questo proposito ha evocato i “ragazzi del ’99” che, nel 1917, dopo la rotta di Caporetto, fermarono il nemico sul Piave. Ma passata l’ora più buia bisognerà avviare delle riflessioni su quanto è avvenuto in questi anni nel settore della sanità.



Il sindacato dei medici ospedalieri, Anaoo, dopo aver denunciato la mancanza negli organici di 46mila operatori di cui 8mila medici, ha avanzato delle proposte (alternative al richiamo in servizio dei pensionati), riguardanti la possibilità di avvalersi dei medici specializzandi e degli infermieri laureati non ancora iscritti all’Albo. Sappiamo che la sanità è uno di quei settori in cui la domanda sovente non trova risposta nell’offerta, soprattutto nelle regioni settentrionali (nella sanità privata, ad esempio, è abbastanza elevata la presenza di personale straniero comunitario e non). È singolare, però, che, in un momento in cui si va alla ricerca degli errori (vengono denunciati dai media – che ormai non parlano d’altro se non del coronavirus – tagli feroci alla sanità pubblica che stanno al confine del “sentito dire”), nessuno ha il coraggio di ricordare una delle cause recenti delle difficoltà che oggi si riscontrano per quanto riguarda l’adeguatezza degli organici. È una vera e propria omertà della comunicazione, che di quelle cause è stata propagandista acritica.

Quali sono stati gli effetti delle controriforme giallo-verdi in materia di riforma pensioni (quota 100 e dintorni)? A suo tempo furono espresse molte perplessità sull’introduzione di misure di anticipo dell’età di pensionamento perché avrebbero creato dei seri problemi in alcuni settori strategici come la scuola, la giustizia e soprattutto la sanità. A lanciare l’allarme furono proprio i sindacati dei medici e le pubblicazioni specializzate. Tra queste ultime ricordiamo un articolo apparso sul “Quotidianosanità.it” del 15 marzo 2019 di cui riportiamo un brano significativo: “Sono circa 140mila gli operatori sanitari dipendenti del Servizio sanitario nazionale che a fine 2018 avevano raggiunto i requisiti per ‘Quota 100’. E di questi oltre 40mila (tra il 22 e il 26% per i dirigenti e il 28 e il 35% per il personale non dirigente sulla base delle nostre stime effettuate tenendo conto della percentuale di domande fino ad oggi presentate sul totale degli aventi diritto) sono tra i possibili ‘pensionandi’ con il nuovo meccanismo. I primi a segnalare il pericolo – proseguiva l’articolo – erano stati qualche settimana fa i medici che avevano annunciato una fuoriuscita possibile di circa 4.500 professionisti. Poi l’allarme rosso degli infermieri, la categoria più numerosa del Ssn, le cui previsioni sono state di una perdita di oltre 22mila unità. Assistenza più che a rischio quindi, soprattutto nelle Regioni che stanno peggio, quelle con i piani di rientro, dove le carenze di personale sono già gravi e pesano sui servizi: oltre il 35% di chi potrebbe andare in pensione con Quota 100 è nei loro territori”.

L’articolo, poi, era accompagnato dalla sottostante tabella molto specifica per le diverse professioni che, tenendo conto di quanti operatori avevano maturato i requisiti previsti da quota 100, ipotizzava delle stime sui possibili esodi sia in valore assoluto che in percentuale. È appena il caso di sottolineare che le preoccupazioni, allora, esistevano rebus sic stantibus. Quando il trio di vertice del governo giallo-verde festeggiò la conversione del dl n.4 del 2019 (Salvini esibiva un cartello in cui era contenuta soltanto l’indicazione di quota 100 per rivendicarne la paternità e dissociarsi dal reddito di cittadinanza) nessuno immaginava che un anno dopo sarebbe scoppiata l’epidemia del coronavirus. Ma quel provvedimento, dettato da motivi demagogici e del tutto ingiustificati, ha pesato sulle difficoltà di oggi, anche se – come pare – i pensionamenti, per ora, sono stati meno di quelli previsti (nel pubblico impiego le misure sono entrate in vigore dal 1° agosto scorso).

Comunque la ferita nell’ordinamento pensionistico rimane aperta fino a tutto il 2021 (e fino a tutto il 2026 per la norma che blocca i requisiti per l’accesso al trattamento ordinario anticipato). Pertanto è possibile che il fabbisogno di personale diventi ancora più grave, dal momento che la scelta di rimanere in servizio, in frangenti come l’attuale, richiede un alto senso civico e professionale che sicuramente è stato presente e determinante finora, ma non è detto che lo sia in futuro. Per inciso, ricordiamo che il diritto conseguito entro il 31 dicembre 2021 può essere esercitato anche successivamente alla predetta data e il requisito di età anagrafica non è adeguato agli incrementi correlati alla speranza di vita.

Ci auguriamo, in conclusione, che questa emergenza “virale” serva – non solo per il personale sanitario – a rimettere in discussione delle misure di carattere previdenziale sbagliate che oggi sottraggono risorse, umane ed economiche, a situazioni di assoluta priorità come la salute e la sicurezza degli italiani. Ma non c’è stata soltanto la politica previdenziale del Conte 1 a creare difficoltà al Ssn per quanto riguarda il personale. Come ha rilevato la Corte dei Conti in sede di monitoraggio della spesa pubblica anche talune misure di carattere fiscale hanno contribuito a favorire l’esodo dei medici dalle strutture sanitarie pubbliche: “A rendere più difficile rispondere alle carenze contribuiscono, comunque, più fattori: i diversi regimi esistenti tra strutture private e pubbliche nella possibilità di svolgere lavoro in regime libero professionale e l’innalzamento delle soglie minime del regime forfettario a 65mila euro con aliquota piatta al 15%, che riduce per un medico con rapporto libero professionale le imposte di quasi due terzi rispetto a un medico dipendente, orientando l’offerta di lavoro a tutto discapito del lavoro pubblico. Inoltre, ciò rende conveniente optare per il regime extramoenia, compatibile con la flat tax entro la soglia individuata e fa venir meno il vincolo di equilibrio tra attività svolta in ambito istituzionale e attività svolta in regime libero-professionale”.

Non è un caso, poi, che – correttamente – le norme di emergenza abbiano sospeso il divieto di cumulo tra pensione e reddito per i medici pensionati che riprendono servizio. È poi una bella pagina quella che ha visto ben 8mila medici rispondere all’appello della Protezione civile e al bando per 300 posti in via d’emergenza. Visto che di medici c’è bisogno ovunque, anche nel Mezzogiorno, è ragionevole pensare che molti di questi volontari provengano dalle schiere dei pensionati.

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