Su quota 100 e le altre misure previdenziali/assistenziali finanziate nella legge di bilancio e regolate dal decretone n. 4 del 2019 si scaricano una serie di problemi lasciati aperti quando il governo giallo-verde decise di assicurarsi in breve tempo una base di consenso – in vista delle elezioni europee – rinviando al futuro le soluzioni più stabili ed organiche. A partire da quota 100, i provvedimenti hanno assunto carattere sperimentale oppure sono stati rifinanziati solo per l’anno in corso.



È dunque necessario che il nuovo governo (se riuscirà a nascere e se sarà vitale) immagini – magari attraverso un confronto con i sindacati – delle vie d’uscita sul piano normativo e si accinga a valutare come gli interventi in tema di pensioni possono essere collocati nel contesto di una manovra per il 2020 che già si sta trascinando una palla al piede di 23 miliardi di incremento dell’Iva, già in vigore dal prossimo 1° gennaio, nonostante che tutti i partiti la presentino come un disastro per l’economia e una sciagura per le famiglie. Per farla breve, la nuova maggioranza politica farebbe volentieri un dispetto alla Lega, grande sponsor di quota 100, ma in materia di pensioni è bene essere prudenti.



Per quanto sia relativamente contenuto il numero dei soggetti interessati (lo si è visto con gli utilizzatori di quota 100 e delle misure di corollario) i “pensionandi” costituiscono una lobby potentissima, perché sono attivi all’interno delle organizzazioni sindacali e possono vantare una campagna battente per anni a loro favore da parte dei media tv. Persino Elsa Fornero si è schierata sulla linea del “noli me tangere” affermando – durante un dibattito alla Versiliana, insieme al prof. Pasquale Tridico – “se dovessi dire cosa farei su quota 100, la risposta è che una volta che le cose sono fatte devono rimanere”. Certo, le persone hanno diritto ad avere delle certezze, ma intanto il cantiere delle pensioni resta sempre aperto. Ma per quali motivi il Paese dovrebbe farsi carico di un maggior onere di 48 miliardi nel 2027 quando verrà meno anche il blocco (al livello raggiunto nel 2018) dell’adeguamento automatico all’attesa di vita nel caso del pensionamento anticipato a prescindere dall’età anagrafica (ovvero 42 anni e dieci mesi e un anno in meno per le donne)?



Come accade sempre in questi casi, sono in circolazione delle proposte da parte di esperti della materia, mentre trapelano poche notizie su come questi problemi siano affrontati nel programma che gli sherpa stanno redigendo. Allo stato degli atti pare che nel programma neppure se ne parli.

Merita una particolare segnalazione una nota di Itinerari previdenziali, l’autorevole centro studi presieduto da Alberto Brambilla. Lo scenario che traccia è il seguente: 67 anni per la vecchiaia con almeno 20 anni di contributi (confermando l’adeguamento all’aspettativa di vita); innalzamento dei requisiti, per l’anticipo, a 64 anni (indicizzati all’attesa di vita) insieme a 37/38 di contributi, con l’inclusione di 2 anni di contribuzione figurativa (che si aggiungerebbero al computo delle tipologie più importanti); possibile sostituzione di quota 100, Ape sociale e Opzione donna con l’introduzione di fondi per l’esubero (previsti dalla legge, ma che scontano la difficoltà delle parti sociali nel darvi corso). Fino a qui nulla da eccepire. Brambilla però propone di stabilizzare a 42 anni e 10 mesi (e un anno in meno per le donne) il pensionamento ordinario di anzianità.

A mio avviso, una misura siffatta vanificherebbe l’innalzamento, da 62 a 64 anni, del requisito anagrafico sopra descritto, perché le generazioni di baby boomers pensionande, specie gli uomini, sarebbero in grado di far valere questo requisito contributivo ben prima di aver raggiunto 64 anni (per giunta indicizzati) di età. Questo tipo di pensionamento continuerebbe a consentire, per un lungo arco temporale, l’esodo di coorti poco più che sessantenni, entrate presto nel mercato del lavoro.