Il diritto a tutte le prestazioni pensionistiche introdotte o regolate dal d.l. n. 4/2019 è subordinato al possesso di un requisito di anzianità contributiva minima: 38 anni per pensioni quota 100 (art. 14), 42/41 anni e 10 mesi, rispettivamente per uomini e donne, per le pensioni anticipate di cui all’art. 24, co. 10, d.l. n. 201/2011 (art. 15), 35 per “opzione donna” (art. 16) e 41 per i lavoratori precoci di cui all’art. 1, c. 199, l. n. 232/2016 (art. 17).



A eccezione della seconda ipotesi, le altre misure sono di carattere sperimentale o, comunque, ad applicazione temporalmente limitata, mentre l’entità del requisito fa risalire l’inizio della contribuzione a epoca precedente il 1° gennaio 1996. Al momento, pertanto, esse sono fruibili soprattutto da lavoratori la cui pensione è soggetta al regime di calcolo c.d. misto, che il d.l. n. 201/2011 ha esteso, per le contribuzioni maturate dal 1° gennaio 2012, anche a coloro il cui sistema di calcolo era in origine integralmente retributivo. Peraltro, alla pensione quota 100 e, probabilmente, alle altre prestazioni, possono accedere anche i lavoratori che abbiano optato per il sistema di calcolo contributivo ai sensi dell’art. 1, co. 23, l. n. 225/1995.



Riferendosi a “pensioni quota 100” e a “opzione donna“, la circolare Inps n. 11 del 29 gennaio 2019, precisa che “ai fini del perfezionamento del requisito contributivo è valutabile la contribuzione a qualsiasi titolo versata o accreditata in favore dell’assicurato, fermo restando il contestuale perfezionamento del requisito di 35 anni di contribuzione utile per il diritto alla pensione di anzianità, ove richiesto dalla gestione a carico della quale è liquidato il trattamento pensionistico“.

Nulla è detto riguardo alle altre due prestazioni sopra richiamate, ma solo perché l’accertamento dell’esistenza del requisito contributivo già è operato dall’ente previdenziale applicando la medesima regola. Si tratta allora di comprenderne il significato concreto o gli effetti sull’esistenza del diritto a pensione e la sua ragione giuridica.



La ragione sta nel fatto che tutti i trattamenti richiamati sono forme di “pensione anticipata”, secondo la definizione che il d.l. n. 201/2011 ha utilizzato per distinguerle dalla “pensione di vecchiaia” (art. 24, co. 3). Da questa, infatti, la prima differisce per: a) l’accesso alla pensione a un’età anagrafica, appunto, “anticipata” rispetto a quella di vecchiaia; b) l’esclusività della scelta in tal senso attribuita al lavoratore; c) l’assenza di una situazione di bisogno, inteso come perdita della capacità lavorativa, da ristorare e, per converso; d) la natura premiale della pensione, in considerazione del contributo che, col proprio lavoro, il lavoratore dà alla crescita spirituale e materiale della società.

Si tratta degli elementi già qualificanti la “pensione di anzianità”, introdotta nella seconda metà degli anni ’60 del secolo scorso, con la quale, perciò, la prestazione “anticipata” si pone in linea di continuità, ne ingloba la ratio. È in questa linea di continuità che si può comprendere anche il senso della regola applicata dall’Inps.

Infatti, secondo l’art. 22, co. 1, lett. b), l. n. 153/1969, il diritto alla pensione di anzianità maturava con «almeno 35 anni di contribuzione effettiva in costanza di lavoro (e) volontaria». Ne consegue che, ai fini del diritto alla pensione, prima di anzianità, ora anticipata non sono computabili i contributi per malattia, infortunio, disoccupazione, ossia i contributi “figurativi”. Tale esclusione è confermata dalla giurisprudenza di legittimità, per la quale quei contributi non sono “effettivi”, ma costituiscono una sorta di copertura “fittizia” per periodi in cui si è verificata un’interruzione o una riduzione dell’attività lavorativa e di conseguenza non c’è stato il versamento dei contributi obbligatori da parte del datore di lavoro, né del lavoratore, restando totalmente a carico della gestione previdenziale (Cass. 24 luglio 2017, n. 18192).

Orbene, la circolare Inps ribadisce l’applicazione di questa regola, anche alle fattispecie pensionistiche sopra ricordate. Ciò significa che, ai fini dell’esistenza del requisito di volta in volta richiesto (38, 42/41 anni e 10 mesi, 35 e 41 anni) va operata una doppia verifica: innanzitutto sull’esistenza di 35 anni di contribuzione effettiva e, in secondo luogo, sulla maggiore anzianità contributiva richiesta, ai cui fini, però, sono utili anche i periodi accreditati figurativamente, a prescindere dal momento cui si riferiscono.

Nessuna indicazione, invece, offre la circolare per l’ipotesi di lavoratori che abbiano optato per il regime di calcolo integralmente contributivo. In tal caso, per pensione quota 100 e opzione donna non può trovare applicazione l’art. 1, co. 7, l. n. 335/1995, come modificato nel 2007, che riguarda esclusivamente le pensioni maturate con 40 o più anni di contribuzione. Peraltro, l’art. 24, co. 11, d.l. n. 201/2011, ha introdotto la pensione anticipata in regime di calcolo contributivo, conseguibile con 63 anni di età e venti di contribuzione, che l’Inps ha precisato debba essere “effettiva”, (circolare n. 35/2011, punto 2.2.). La medesima regola è ora applicata per le anzianità contributive di 38 o 35 anni, riproducendo così il doppio livello di verifica del requisito contributivo sopra ricordato.