Nel disegno di legge di bilancio, le misure sulle pensioni somigliano sempre più a una maionese impazzita. Le soluzioni proposte entrano ed escono dal testo come se il Governo fosse in preda ai ripensamenti e provasse a mettere in circolazione misure al solo scopo di “vedere l’effetto che fa”. In verità, il problema è più semplice e riguarda il come far quadrare i conti, dal momento che sulle pensioni il Governo non è in grado di muoversi in modo razionale (se ci fosse questa possibilità, il ddl ignorerebbe completamente il settore della previdenza), ma deve assecondare le pretese di una parte della maggioranza che si è data degli obiettivi riconducibili alla fattispecie del falso ideologico (quota 103: 62 anni + 41 di versamenti) e all’ultimo momento ha ritenuto di celebrare le esequie di Roberto Maroni attingendo all’esperienza del superbonus – in vigore dal novembre 2002 fino a tutto il 2007 – promossa, quando era ministro del Lavoro, dall’esponente scomparso.



Intanto sembra ormai certo che Opzione donna conserverà i soliti requisiti, riconfermati da tempo anno dopo anno, senza scomodare il numero dei figli per determinare il requisito anagrafico. Sono sorti dubbi di legittimità costituzionale che hanno indotto ad archiviare quel “colpo di scena” che per alcuni giorni ha trovato spazio nelle cronache. L’attenzione si è spostata sull’incentivo a restare al lavoro anche dopo aver maturato la nuova quota.



All’inizio si è parlato (così era scritto nel comunicato del governo) di una decontribuzione del 10%, ma nei giorni successivi i soliti boatos hanno rievocato la stessa operazione compiuta, a suo tempo, da Maroni. È bene allora soffermarsi su quell’esperienza, anche per farsi una idea di come potrebbe funzionare il nuovo incentivo e quali effetti potrebbe avere nel nuovo contesto del sistema pensionistico. In base alla legge n.243/2004 ai lavoratori dipendenti privati che avessero scelto di ritardare il pensionamento anticipato era devoluto in busta paga l’intero importo (esentasse) della contribuzione a carico loro e del datore (il c.d. superincentivo ammontava nel complesso al 32,7% a cui andava aggiunto il corrispettivo dell’esenzione fiscale). Allora per le pensioni di anzianità era sufficiente un requisito contributivo di 35 anni, per cui i beneficiari erano tutti in regime retributivo. Il congelamento della pensione determinava al massimo un taglio permanente dell’importo del 6% (il 2% per tre anni). Era assai più conveniente l’ammontare triennale del bonus anche se era una sorta di una tantum triennale.



La convenienza per la finanza pubblica era condizionata da un fatto molto banale, ma soggetto a una probatio diabolica. Quelli che incassavano il superbonus avevano rimandato davvero per quel motivo il momento della pensione oppure sarebbero rimasti ugualmente al lavoro? Com’è facile comprendere a questa domanda non è mai stata data una risposta certa perché è arduo entrare nella testa della gente e raccoglierne il pensiero. Vennero però condotte delle stime a conferma del fatto che l’operazione fu un disastro; per un triennio vennero erogate somme importanti a persone che già avevano una posizione solida nel mercato del lavoro. Le stime empiriche dell’Inps misero in evidenza che la maggioranza dei 95mila aderenti aveva, al momento del rinvio, un’anzianità media di 38 anni e pertanto al momento in cui era sorto il diritto a usufruire del requisito ordinario (35 anni) erano rimasti al lavoro. Molti lavoratori optanti continuarono a lavorare nello stesso posto dopo il pingue bottino del superbonus.

Tornando ai nostri giorni e al ddl di bilancio viene da chiedersi che senso abbia l’incentivo a rimanere oltre Quota 103. Servirsi di questa via d’uscita è un’opzione che, come dimostra l’esperienza compiuta con Quota 100 e Quota 102 non viene condivisa, per diverse ragioni, da una quota importante dei possibili beneficiari. Poi perché vengono incentivati solo coloro che prolungano l’attività lavorativa oltre Quota 103 e non anche coloro che rimandano l’uscita dopo aver maturato il requisito ordinario dell’anticipo (42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne a prescindere dall’età anagrafica)? Peraltro capita spesso che per tanti baby boomers sia più agevole avvalersi di questa via d’uscita a un’età inferiore a quella richiesta dalle quote, poiché avendo cominciato a lavorare in giovane età riescono a maturare il requisito ordinario prima dei 62 anni.

Ammesso e non concesso che l’incentivo rimanga quello di cui si è parlato (il 10% della decontribuzione) vi è convenienza a optare per il rinvio? A questo punto torna buona la metafora della maionese. Vediamo il perché. Anche in questo caso sarà previsto il congelamento della pensione al momento della opzione per il proseguimento? Si vedrà. In primo luogo, va segnalato che gli utilizzatori di Quota 103 e del proseguimento incentivato, per il livello delle loro pensioni, in larga misura mediamente superiori al tetto di 2.100 euro mensili lordi, subiranno per due anni un taglio della rivalutazione automatica secondo le nuove aliquote che scenderanno, per fasce crescenti, fino al 35% del tasso di inflazione. Poi, a differenza del 2004-2007, oggi tutte le pensioni hanno una quota calcolata con metodo contributivo almeno dal 1° gennaio 2012. Ne deriva che – salvo imprevisti stratagemmi – il montante sul quale sarà calcolato il trattamento risulterà defalcato del 10% per alcuni anni. Ma non è finita, perché col calcolo contributivo sono previsti coefficienti di trasformazione più elevati in relazione all’età del pensionamento; pertanto ad andare in quiescenza più tardi si riscuote una pensione più elevata. Un bel saliscendi!

Mi pare evidente che – stando così le cose – il calcolo delle convenienze tra le diverse opzioni diventerà piuttosto complicato, in quanto a ogni vantaggio sarà connesso uno svantaggio, a ogni incentivo un disincentivo. E viceversa.

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