RIFORMA PENSIONI. Il discorso di Mario Draghi al Senato nel dibattito sulla fiducia conteneva più di 5.600 parole che, raccolte in frasi brevi ma chiare, esprimevano i progetti del Governo sui temi più urgenti da affrontare. Parole pesanti, nette. Ognuna di seguito all’altra con un preciso significato; non giri di parole, ma impegni seri e concreti. Eppure, a leggere il testo con attenzione (e magari con un pizzico di malizia) c’era una parola del tutto assente, come se appartenesse a una lingua morta della quale si è persa la memoria; una parola che pure ha suscitato desideri, passioni, conflitti mai sopiti; una parola che delimita un universo umano, finanziario, demografico, economico e occupazionale all’interno del quale si giocano le sfide del rapporto tra le generazioni, della sostenibilità di un modello sociale, della tenuta stessa dei conti pubblici. Quella parola che, il 17 febbraio scorso nell’anfiteatro di palazzo Madama, non ha ottenuto – tra le tante – alcuna citazione da parte di Draghi è un sostantivo femminile plurale: pensioni.
Nell’agenda di un Governo la previdenza è uno di quei punti che sono sempre iscritti come si fa con le “varie ed eventuali” o “l’approvazione del verbale della seduta precedente”. Ma a differenza di questi alinea, le pensioni non rappresentano un argomento di routine, ma una delle sfide principali che condizionano la vita di un Governo e che sono in grado, a seconda dell’indirizzo delle misure adottate, di qualificarne l’azione nel senso di una messa in sicurezza di uno dei più importanti diritti sociali o in quello della rapina a mano disarmata di risorse appartenenti alle future generazioni.
Questi sono i problemi che, a breve, il Governo Draghi dovrà affrontare in materia previdenziale e segnatamene con riguardo alle pensioni, poiché anche gli ammortizzatori sociali sono riconducibili al concetto più generale di previdenza. In primo luogo, il Governo deve risolvere una questione che presenta anche degli aspetti tecnici complessi (come accade sempre quando si deve mettere riparo a un errore). Alla fine dell’anno verrà a scadenza “quota 100” il lascito del “tempo degli Unni” divenuto simbolo di una politica previdenziale dissennata, a cui però è necessario porre rimedio. Perché dall’anno prossimo – coloro che avranno maturato il diritto entro il 31 dicembre 2021 potranno farlo valere anche oltre tale limite – i lavoratori che non avranno le condizioni per andare in quiescenza anticipata avvalendosi dei requisiti ordinari (destinati a restare tali fino a tutto il 2026) ovvero 42 anni e 10 mesi se uomini e un anno in meno se donne, si troveranno – per i noti motivi – ad arrampicarsi su di uno “scalone” – per quanto riguarda l’età pensionabile – da 62 a 67 anni, destinato a entrare in vigore dalla sera al mattino a Capodanno.
L’elenco dei principali problemi è presto fatto: a) come regolare in modo uniforme – sia per quanto riguarda tanto i trattamenti di vecchiaia quanto quelli di anzianità – la questione dell’aggancio automatico all’attesa di vita, rimasto operante per la vecchiaia e sospeso quanto ai requisiti dell’anzianità per tutto il tempo delle deroghe sperimentali e temporanee introdotte dal decreto n.4 del 2019; b) la disciplina del pensionamento anticipato/anzianità è quella più complicata politicamente e più aggrovigliata sul piano tecnico. Si profila tuttavia un’area che potrebbe diventare una base comune (il che non significa di per sé positiva, ma si fa sempre il possibile, non il meglio) se si superano le differenze che ancora esistono tra i partiti e con le organizzazioni sindacali.
Si sta facendo strada l’ipotesi di condizionare il pensionamento anticipato con requisiti più ridotti di quelli ordinari (i 42/41 anni e 10 mesi attuali o i 41 anni come è proposto dai sindacati e dalla Lega, a prescindere dall’età anagrafica) all’applicazione del ricalcolo contributivo a tutta l’anzianità di servizio, anche a quella tuttora in regime retributivo. In sostanza, a compensazione di uno sconto sull’età (si resterebbe a 62 anni o si salirebbe di qualche anno?) opererebbe nella generalità dei casi una penalizzazione economica.
Questa proposta basata sul ricalcolo di tutti i contributi versati non convince i sindacati, che hanno formulato una rivendicazione unitaria che prevede, in termini generali, 62 anni di età e 20 anni di contributi, senza penalizzazioni. In pratica, si tratterebbe di un abbassamento dell’età anagrafica attualmente prevista per la pensione di vecchiaia (che richiede 67 anni di età, e 20 anni di contributi). Anche qui, la proposta non contemplerebbe il ricalcolo contributivo (mentre sembrerebbe essere questa la “variante” a cui pensano ambienti governativi). In alternativa, 41 anni di contributi, indipendentemente dall’età: questo sarebbe invece un abbassamento del requisiti attualmente previsto per la pensione anticipata, pari a 42 anni e 10 mesi di contributi (un anno in meno per le donne).
Anche la Lega sembra aver assunto posizioni meno ostinate in difesa (“bandiera vecchia onor di capitano”) di quota 100. I suoi maggiorenti alla Camera hanno presentato un progetto di legge (PdL 2855) a prima firma di Claudio Durigon con questi contenuti: il diritto al pensionamento anticipato ordinario maturerebbe dopo 41 anni di versamenti contributivi effettivi, cumulati e figurativi. La novità consisterebbe nell’applicazione del calcolo contributivo anche ai periodi regolati dal sistema retributivo; la cosa andrebbe ribadita con maggiore chiarezza, ma sembra essere questa la logica del provvedimento. A tal proposito è bene ricordare che a tutti i lavoratori è applicato il sistema misto dall’inizio del 2012, ma che molti degli attuali pensionandi hanno nella storia lavorativa lunghi periodi (a partire dall’1° gennaio 1996) sottoposti al calcolo contributivo. Nel nuovo regime di calcolo prefigurato dal pdl della Lega sarebbero penalizzati i soggetti che si vedrebbero convertire dei periodi lunghi sottoposti al modello retributivo, anche se tale effetto sarebbe compensato, se più anziani di età, da un coefficiente di trasformazione più elevato. È noto, infatti, che il montante contributivo viene moltiplicato per un parametro ragguagliato all’età del pensionamento, periodicamente rivista in base all’attesa di vita.
Fin qui il discorso teorico. È chiaro invece che tutto questo fiorire di posizioni, che si compongono e scompongono come il vetrino di un caleidoscopio, hanno un limite: chi va in pensione prima, riceve un trattamento di importo più basso per effetto del moltiplicatore del montante contributivo (che sia ricalcolato o meno per intero) ragguagliato all’età anagrafica (il cosiddetto coefficiente di trasformazione periodicamente revisionato con criteri inversamente proporzionali in base all’età scelta per la quiescenza). La si può girare come si vuole, ma un riordino con questa impostazione non guarderebbe avanti ma indietro, ai pensionandi di oggi anziché a quelli di domani.