Riforma Pensioni: sembrerebbe che nell’incontro di ieri Mario Draghi sia riuscito vendere la Fontana di Trevi ai sindacati; e peraltro il Premier è stato ancora più abile del personaggio interpretato da Totò nella celebre scenetta di un film che merita un’imperitura memoria solo per quell’episodio di grande maestria, perché i dirigenti sindacali, diversamente dall’italo-americano imbrogliato, sanno benissimo che Draghi non è il signor Trevi e che non è il proprietario della Fontana in cui si immerse Anita Ekberg creando un’icona che ha sfidato il trascorrere del tempo. Ma fuor di metafora, che operazione è riuscita a Draghi?
Innanzitutto ha disarmato la pistola (scarica) della mobilitazione annunciata (fino al ricorso allo sciopero generale) e ha indotto le segreterie di Cgil, Cisl e Uil a sedersi intorno a un tavolo, fin dai primi giorni di dicembre per discutere le linee di una nuova riforma, per la quale – si è detto ieri – non vi sono adesso le risorse disponibili. Quindi Quota 102 è e così rimane.
I sindacati hanno già ottenuto la proroga a requisiti invariati di Opzione donna e – è bene non dimenticarlo – il ripristino delle aliquote “storiche” della rivalutazione automatica delle pensioni che da almeno due decenni ha subito mano missioni allo scopo di fare cassa, presto e bene (per le finanze pubbliche). Il pianto di Elsa Fornero nel dicembre del 2011 veniva dalla consapevolezza di avere azzerato la perequazione per tre anni al di sopra dei trattamenti superiori a tre volte il minimo (1.500 euro lordi mensili): un’operazione che avrebbe portato alle casse dello Stato 8 miliardi complessivi.
È appena il caso di sottolineare che non è per niente vero che i sindacati siano particolarmente attenti ai problemi di coloro che sono già pensionati; le pupille dei loro occhi sono i pensionandi, gli anziani/giovani che sono entrati nel mercato del lavoro in un’epoca probabilmente irripetibile per le condizioni economiche, occupazionali e per quelle che allora si chiamavano “conquiste”. E proprio in questo passaggio casca l’asino: perché le rivendicazioni dei sindacati in materia di pensioni sono funzionali a mantenere questo modello di esistenza (che non è stato esente da problemi) anche quando i baby boomers escono dal mercato del lavoro. Il fatto è che questa garanzia viene messa a carico delle generazioni future.
Come si fa ragionare di pensioni estraniandosi completamente dalla “questione demografica”? Non ha senso considerare solo il tempo in cui si è lavorato e versato contributi: occorre mettere nel conto anche il tempo in cui il trattamento sarà erogato, perché è qui il legame dell’equità intergenerazionale. I pensionati che – secondo le proposte dei sindacati – andassero in pensione a partire da 62 anni (con 41 anni di versamenti a prescindere dall’età i baby boomers arriverebbero a varcare la soglia del Paradiso in un’età ancora inferiore come dimostrano i dati di chi ha usufruito del pensionamento ordinario di anzianità con i requisiti bloccati fino a tutto il 2026) sarebbero totalmente a carico delle generazioni future per più di venti anni (secondo quanto evidenziano le attese di vita).
Draghi questi problemi li conosce; non a caso nelle poche volte in cui si esprime lascia intendere di coltivare l’idea di estendere il calcolo contributivo come scambio sul versante di una riduzione dell’età di pensionamento. Ma anche questo sarebbe un errore, perché con gli scenari demografici che si prospettano – tempestati dal duplice fenomeno dell’invecchiamento e della denatalità – non ha molto senso mandare in pensione anticipata persone che potrebbero ancora lavorare, ma erogare loro un trattamento più basso. Andando avanti nel tempo crescerà nelle anzianità di servizio la quota di contributivo che – come tutti dovrebbero sapere – è calcolata sulla base di coefficienti ragguagliati all’età del pensionamento.
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