L’ultima ricerca di Swg descrive bene l’Italia in cui ci siamo cacciati. Il tunnel oltre il quale quasi nessuno più si aspetta di trovare una luce ristoratrice o perché non crede che il tunnel possa finire o perché teme che oltre il tunnel il buio continui a esser pesto. In una parola, il sentimento dominante è quello della rassegnazione.
Quasi nessuno nutre speranze che la situazione personale e collettiva possa migliorare. E perfino il calo della paura va in questa direzione: se ho incorporato il peggio, di che cosa più posso avere timore? È come se gli italiani si fossero messi l’animo in pace perdendo ogni confidenza nella capacità di riscatto del sistema.
Le emozioni legate al futuro sono, nell’ordine d’intensità, attesa, paura, delusione, tristezza, rabbia, serenità, dinamismo, passione. Da notare che avanza la tristezza. Le parole più importanti di domani sono sicurezza, giustizia sociale, libertà economica, uguaglianza. Crolla la fiducia nei partiti, che si presentano al minimo storico, e affonda la stima nella magistratura con il 64 per cento degli intervistati che si dice convinto che occorra una radicale riforma della giustizia. Tra i due contendenti – politica e magistratura – nessuno può cantare vittoria agli occhi dei cittadini.
Ma che i rapporti di forza tra i due ordini – quello esecutivo e quello giudiziario – non siano più su un livello paritario come la Costituzione più bella del mondo vorrebbe sono almeno tutti d’accordo e Angelo Panebianco lo spiega bene su un fondo del Corriere della Sera che indica i pericoli di tale sbilanciamento.
Una consapevolezza un po’ tardiva, anche perché mancano pochi giorni alla cancellazione della prescrizione dei processi che così minacciano di non finire mai con buona pace per chi resta impigliato nelle maglie di provvedimenti e procedimenti che sembrano studiati apposta per torturare i buoni e favorire i cattivi.
Se una volta si diceva che fosse meglio avere un colpevole fuori dal carcere che un innocente dietro le sbarre, oggi il sentimento si è capovolto con un eccesso di imputati che si rivelano innocenti all’atto del giudizio e intanto rovinati da atti preventivi come carcerazione e sequestri alla presenza di semplici indizi.
E si è capovolto l’onere della prova, mette in evidenza il Foglio reso particolarmente sensibile da una vicenda che lo riguarda da vicino legata ai contributi all’editoria. Non è più chi lancia un’accusa a dover provare la veridicità di ciò che dice, ma l’accusato a dover mostrare le prove della propria innocenza.
Un mostro giuridico cresciuto a dismisura – e forse anche oltre qualsiasi immaginazione – che si nutre dell’invidia sociale e dell’odio che a loro volta si alimentano dell’insoddisfazione per il peggioramento delle condizioni di vita, l’allargarsi delle disuguaglianze, il blocco dell’ascensore sociale.
Questa vocazione italiana al giustizialismo, con tutto quello che significa in termini di caduta dalla certezza del diritto e di conseguente diffidenza degli investitori interni ed esteri, ha fatto tanti e tali danni che qualcuno sta cominciando ad accorgersene. Dopo ogni orgia da decapitazione si torna a pensare al pane da mangiare.
Forse si è giunti a un punto di svolta, caduti così in basso con la fine della prescrizione nei processi e l’allargamento dei sequestri preventivi che si può solo riprendere a salire lungo la scala della consapevolezza. Di fronte al baratro della dissoluzione del Paese per via giudiziaria gli italiani mostrano di avere un rigurgito di coscienza.
Perché almeno le leggi della fisica non cambiano al mutare delle maggioranze di governo e a ogni azione continua a corrispondere una reazione uguale e contraria.