Per l’ennesima volta, nonostante sia una misura sociale recente, il Governo intende mettere mano a una rimodulazione significativa del Reddito di cittadinanza. Due sono le ragioni di fondo che portano a una ridefinizione della misura: il costo è diventato troppo oneroso e non ha raggiunto nessuno dei risultati per cui era stata introdotta.



Lo slogan di sostegno “abbiamo sconfitto la povertà” si è rivelato completamente sbagliato. Da quando si è introdotto il Rdc i poveri sono aumentati indipendentemente dagli effetti della pandemia. Non solo sono aumentati. ma è diventato evidente che molti e fra questi i più fragili fra i poveri rimangono esclusi dal Rdc e vedono peggiore la propria situazione economica. Talmente evidente l’errore di valutazione che negli ultimi anni, come ben documentato dall’articolo di Natale Forlani, si sono introdotti altri strumenti di contrasto della povertà. In particolare, l’assegno unico universale ha dato prova di maggiore efficacia nel riuscire a dare sostegno a chi ne ha più bisogno con efficienza ed efficacia superiore al Rdc.



Il secondo obiettivo dichiarato dai padri del Rdc era quello di riuscire a riportare al lavoro quanti avevano ricevuto il reddito come sostegno di passaggio dalla povertà da disoccupazione a un nuovo impiego. Un esercito di navigator fu assunto per garantire un servizio di accompagnamento al lavoro per tutti coloro che usufruivano del Rdc ma erano in condizione di essere ricollocati. Un fallimento su tutta la linea anche dopo che il passato Governo aveva cercato di aumentare gli sforzi per rafforzare i Centri per l’impiego e sostenere gli impegni dei navigator.

Con queste premesse di sicuro e ampio insuccesso il Rdc meriterebbe di essere cancellato completamente e lasciato nei manuali delle politiche sociali da non fare. Resta però da comprendere come riprendere un tema che certamente si poneva già nel modello di welfare italiano e che chiede di essere affrontato.



Il buco storico che ci trasciniamo e che non ha mai trovato una risposta universalistica riguarda il sistema di politiche attive con il relativo sistema di sostegno al reddito. Il nostro sistema di welfare legato al sostegno del lavoro ha sempre preferito lasciare l’assegno di disoccupazione a un livello di assistenza sociale per poi introdurre ed estendere un sistema di sostegno al reddito legato alla difesa del posto di lavoro, attraverso le diverse forme assunte dalla cassa integrazione, e senza mai sviluppare un sistema di servizi finalizzati alla ricollocazione delle persone disoccupate. A fronte di questi interventi è mancata una politica di contrasto alla povertà preferendo a misure organiche un vasto sistema di assistenza sociale con sostegni economici collegati a tanti aspetti di fragilità delle persone. Sistema che ha permesso grandi abusi e soprattutto la difficoltà a contenere una spesa sociale inefficace e sprecona.

Il Rdc tentava di affrontare tutti i problemi attraverso un solo strumento e ha dimostrato che si deve invece avere il coraggio di dividere i problemi riconducendoli alle radici. La spinta che viene avanti ormai da anni è una richiesta di sostegno al reddito con carattere universale. La ragione sta nei cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro. La crescita dei lavori poveri, nelle loro diverse forme, ha acceso i riflettori su come sostenere la partecipazione attiva dl maggior numero di persone possibile al mercato del lavoro intervenendo però dove il reddito da lavoro non dovesse bastare ad assicurare una vita dignitosa. Fissare un salario minimo (con legge o per via contrattuale)è un primo punto di contrasto ai lavori poveri, occorre poi un sistema di politiche attive e della formazione permanente che sostenga l’occupabilità di tutti di fronte ai cambiamenti e, ancora, politiche fiscali e di sostegno al reddito per chi dovesse comunque risultare sotto al livello di reddito minimo.

È partendo da qui e realizzando un sistema di servizi a sostegno del lavoro e di chi ne resta temporaneamente escluso che si costruisce la diga contro la povertà. La frattura che caratterizza il mercato del lavoro del nostro Paese può trovare un riunificazione in un sistema di sostegno al lavoro unico su tutto il territorio e con una modulazione dei servizi adeguata alle differenze territoriali. Se si riduce tutto ad assistenza senza spendere per sostenere l’occupazione si condannano coloro che vogliono essere attivi nel Mezzogiorno a emigrare o accettare forme assistenziali.

Vi è poi certamente anche da definire una politica di risposta alla povertà. Le risorse devono però essere dirette prioritariamente verso i più fragili, le famiglie con minori devono essere privilegiate attraverso meccanismi che non premino i single. Altrettanto vanno sostenuti quanti non possono contribuire con il lavoro e non possono che ricevere da forme assistenziali il reddito di sostentamento. I servizi di sostegno per tutti costoro sono essenziali e non possono quindi che vedere un ruolo centrale nei servizi sociali del territorio. Risorse nazionali ma governo locale possono dare maggiore efficacia alle misure di sostegno delle persone e delle famiglie più fragili. Il centralismo nel governo di questi problemi sociali ha dimostrato una completa inefficienza.

Il punto centrale e comune per le politiche contro la povertà, sia che riguardino quanti possono uscirne attraverso il lavoro che quanti non possono che dare un contributo limitato, sta nel valorizzare il ruolo di tutti nel portarli a dare un contributo attraverso le proprie competenze. Nessuno deve essere lasciato solo, deve sapere che c’è chi lo prende in carico per rispondere al suo bisogno e deve essere disposto ad accettare la sfida di riattivarsi per dare il proprio contributo al bene comune.

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