Airbnb e Booking hanno cambiato l’economia del turismo in pochi anni e in maniera radicale, dando la possibilità a milioni di utenti di prenotare pernottamenti a basso costo, praticamente in tutto il mondo. Uber ha dato la possibilità a chiunque di mettere a disposizione il proprio veicolo per chi ne avesse bisogno, anche stavolta a un prezzo più contenuto delle tariffe dei mezzi pubblici. Le app per pagare voli low cost non si contano e in fase di pandemia acuta abbiamo cercato di tener botta con Immuni e una piattaforma gestita dal ministero della Salute. E bene o male ce la siamo cavata.
Oggi anche le supplenze negli istituti scolastici vengono amministrate attraverso il web ed è nato un sito – si chiama Madscuola.it – che domanda “Vuoi lavorare nel mondo della scuola?” e invita a inoltrare suo tramite le domande di “messa a disposizione” per trovare lavoro come docente, insegnante di sostegno o personale Ata. C’è chi sostiene che un algoritmo potrebbe facilmente permetterci di incrociare la domanda e l’offerta di migranti dalla Sponda Sud del Mediterraneo verso l’Europa, agevolando la gestione dei flussi.
A questo punto è legittimo domandarsi: la tecnologia consentirebbe di gestire anche il rapporto tra domanda di prestazioni e offerta di lavoro dei percettori di reddito di cittadinanza?
Domanda retorica, perché gli apparati di comunicazione digitale e gli algoritmi che li presidiano sono attualmente in grado di fare operazioni ben più complesse. Bisognerebbe quindi trovare il coraggio “politico” per assicurare l’incontro tra chi chiede e chi offre lavoro ricorrendo a una piattaforma web la quale potrebbe sostituire quasi in tutto i navigator e i centri per l’impiego, o esserne un loro robusto supporto.
Perché non si fa? Non lo consentono le leggi in vigore? Può darsi, ma Costituzione a parte, cosa impedisce alla classe politica di adattare le leggi all’evoluzione tumultuosa della nostra società?
Fatto sta che nel giro di una generazione o due, dobbiamo proprio alla tecnologia una vera e propria mutazione genetica che ha scavato un fossato tra la concezione del mondo dei boomers e dei quella dei millennials. I giovani di ieri e quelli di oggi appartengono oggettivamente a mondi che non si incontrano più. I primi, nati quando ancora la fabbrica era il centro del mondo, sono ancora assuefatti all’idea che tutto è possibile e tutto ancora da fare, grazie alla sovrabbondanza di opportunità di un pianeta non ancora saturo. Sovrabbondanza che intento è diventata penuria. I secondi, quasi appartenenti a una razza a parte, cronicamente depressi o arrabbiati. Nati quando la fabbrica è scomparsa e sono andate in crisi le narrazioni dei genitori, non leggono i giornali, non guardano la tv, non si interessano di politica (quasi sempre). I boomers abituati ad avere un rapporto solido con la politica, di tecnologia sanno poco o nulla. A loro si oppongono i millennials, che sanno tutto dell’uso delle tecnologie ma niente vogliono sapere della politica.
Torniamo al reddito di cittadinanza. A giudicare la misura al cospetto dei dati della povertà non c’è osservatore che non ammetta la necessità di tenerlo in piedi. Ma se si guarda allo strumento come leva per l’occupabilità delle persone, non c’è nessuno che non pensi di sopprimerlo.
Per concludere. È vero, il Rdc non ha mai goduto di buona stampa, soprattutto in campagna elettorale. Le notizie frequenti dei controlli delle forze dell’ordine sulla legittimità delle assegnazioni hanno contribuito a tingerlo con le sfumature fosche della frode. Ma io resto convinto che sarebbe cosa buona e giusta allestire una piattaforma sulla quale i percettori di reddito di cittadinanza potrebbero registrarsi, indicando le proprie competenze e disponibilità. E le aziende, chiamate a indicare le loro esigenze in termini di personale, o le stesse famiglie, potrebbero indicare di quali servizi hanno bisogno. E confesso, non sono nemmeno un millennial.
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