Com’era facilmente prevedibile, le ipotesi di riformare il Reddito di cittadinanza hanno generato polemiche fino a minacciare la mobilitazione delle piazze per difendere un istituto che ha dimostrato palesemente la scarsa efficacia nel contrastare la povertà assoluta e l’inconsistenza delle politiche attive del lavoro finalizzate a favorire l’inserimento lavorativo dei percettori dei sussidi.



Nei tre anni e mezzo di vigenza del provvedimento hanno beneficiato delle misure oltre 5 milioni di persone appartenenti a 2,2 milioni di nuclei familiari (senza considerare i circa 700 mila percettori del Reddito di emergenza nel corso della pandemia Covid e la mole infinita dei bonus erogati dallo Stato sulla base delle dichiarazioni Isee), ma nel frattempo il numero di quelle in condizioni di povertà assoluta è aumentato di oltre 600 mila unità e l’intensità della povertà, cioè la distanza media dei redditi reali rispetto alla soglia stimata per valutare l’entità delle persone povere, è diminuita di un misero 2%.



Queste sono le stime prodotte dall’Istat. Quelle utilizzate per motivare l’introduzione del Reddito di cittadinanza, ma del tutto trascurate quando si è trattato di predisporre i criteri di selezione dei beneficiari, delle modalità di calcolo degli importi e di controllo delle prestazioni. Abbiamo più volte documentato gli effetti distorsivi del provvedimento a danno delle famiglie numerose, dei minori a carico, dei poveri residenti nelle aree del nord Italia, delle persone immigrate che rappresentano da sole un terzo dei poveri. Frutto di un provvedimento varato consapevolmente in fretta e furia, in assenza della messa a punto dei sistemi di controllo preventivi previsti dalla stessa legge approvata. Hanno suscitato reazioni scandalistiche le scoperte di abusi organizzati, talmente clamorosi da far dubitare sulla qualità degli accertamenti effettuati dall’Inps.



Quanto alle politiche attive del lavoro per i beneficiari di questi sussidi, propagandate con l’ausilio della Pubblicità Progresso con il titolo della “più grande politica attiva messa in campo in Italia” per l’obiettivo di inserire al lavoro 1 milione di disoccupati, il fallimento era del tutto scontato, data l’impossibilità di trovare 3 offerte pro capite a tempo indeterminato da sottoporre a ogni beneficiario in età di lavoro con l’ausilio di improvvisati navigator.

La proposta di Legge di bilancio approvata dal Consiglio dei ministri contiene uno specifico articolo che traguarda la vigenza del reddito e della pensione di cittadinanza al 31 dicembre 2023 e introduce un regime transitorio per il prossimo anno in previsione di una riforma organica dello strumento rivolto a contrastare la povertà che dovrebbe entrare in vigore nel 2024.

Questo regime transitorio prevede che la durata delle prestazioni venga ridotta da 18 a 8 mesi per i beneficiari con età tra i 18 e i 59 anni non esentati dall’obbligo di cercare e accettare le offerte di lavoro congrue, consentita per quelli appartenenti a nuclei familiari con minori e disabili a carico o persone con età superiore ai 60 anni, venga previsto l’obbligo di frequentare corsi di formazione per almeno 6 mesi, di prestare servizio nei progetti di pubblica utilità promossi dagli enti locali e di accettare la prima offerta di lavoro congrua (rapporti di lavoro della durata superiore ai 3 mesi, entro i 50 km dalla residenza e non inferiori all’80% dei salari percepiti in precedenza). Con la sanzione della perdita del sussidio nel caso di rifiuto delle offerte o di mancata frequentazione dei programmi formativi e dei lavori socialmente utili. Ai beneficiari del Rdc viene data la possibilità di effettuare prestazioni di lavoro stagionali e di cumulare i salari percepiti con il sussidio del fino a un massimo di 3.000 euro.

Le ipotesi formulate hanno scatenato forti reazioni. “Scaricati 660 mila poveri”, titola la prima pagina di Avvenire, l’organo ufficiale della Conferenza episcopale italiana, per stigmatizzare le conseguenze che potrebbero comportare per la quota dei percettori occupabili, che hanno sottoscritto il patto di disponibilità secondo le stime dell’ Anpal (Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro). Sulla base del comunicato del Consiglio dei ministri e dei chiarimenti offerti dalla ministra del Lavoro Marina Calderone, in assenza di un testo definitivo che consenta di valutare concretamente l’impatto delle novità, la prospettiva delle conseguenze drammatiche per circa 400mila nuclei paventata dalle opposizioni parlamentari non sembra motivata. In tal senso giova evidenziare che, al netto dell’obbligo di accettare la prima offerta congrua, le condizionalità previste per gli attuali beneficiari sono già vigenti nell’ambito di un diritto a percepire i sussidi da parte del nucleo familiare per la durata di 18 mesi, e che l’eventuale decadenza dei benefici per rifiuti di offerte di lavoro o per la mancata frequentazione dei corsi di formazione non dovrebbe coinvolgere gli altri beneficiari del nucleo familiare.

L’esigenza di una riforma dell’istituto, nell’ambito di una valutazione parzialmente positiva degli esiti prodotti dal Rdc, era stata espressa dalla Commissione Saraceno. Istituita dalla ministra del Lavoro Nunzia Catalfo per stimare i risultati del provvedimento, e che nella relazione finale ha formulato 10 proposte finalizzate a rivedere i criteri di selezione della platea dei percettori e dei criteri di calcolo delle prestazioni che hanno penalizzato le famiglie numerose, con minori a carico, e per ampliare la partecipazione degli immigrati dimezzando gli attuali requisiti di residenza in Italia (10 anni). La stessa Commissione, sul tema delle politiche attive del lavoro, ha denunciato l’assenza di risultati e la necessità di riformare l’accettazione delle offerte congrue di lavoro nella stessa direzione proposta dall’attuale Esecutivo (l’obbligo di accettare tutte le offerte congrue e la parziale possibilità di integrare i sussidi con una parte dei salari percepiti con i contratti a termine).

Pur nella radicale differenza degli orientamenti politici sul tema delle politiche rivolte a contrastare la povertà, il terreno delle polemiche dovrebbe essere trasferito sul versante dell’efficacia delle proposte finalizzate a conseguire gli obiettivi.

L’esigenza di dare una scossa al modello di gestione delle politiche attive per l’inserimento al lavoro di fronte all’inaccettabile presenza di una domanda delle imprese che non trova una disponibilità di lavoratori anche per le mansioni con bassa qualificazione risulta quanto mai opportuna per stimolare comportamenti adeguati dei disoccupati e la responsabilità degli operatori dei servizi pubblici per l’impiego. Semmai sarebbe utile ampliare la possibilità di integrare i sussidi con le quote di salario percepito con tutte le forme di contratto a termine o occasionale inferiori ai tre mesi per aumentare gli incentivi in questa direzione.

L’anno di transizione dovrebbe essere utilizzato per rimediare alcuni gravi errori di impostazione del modello adottato per contrastare i livelli di povertà assoluta. In tutti i modelli di welfare più evoluti nei Paesi dell’Ue-15 il compito di prevenire la povertà assoluta viene assunto dal complesso delle prestazioni sociali (lavoro, istruzione, sanità, assistenza, sostegni alle famiglie) riservando alle politiche per il contrasto della povertà assoluta la competenza di intervenire negli ambiti locali e con modelli di intervento personalizzati idonei a contrastare la specificità dei fenomeni originali (disagi familiari, dipendenze di diversa natura, disoccupazione di lunga durata, abbandono scolastico) che in diversi casi sconsigliano l’erogazione di sussidi di carattere finanziario.

A questi modelli si ispirava la sperimentazione del Reddito di inclusione, sostituito dal Reddito di cittadinanza sulla base di un presunto diritto universale di godere di un reddito a prescindere dal lavoro e in grado di supplire le carenze dell’intero complesso delle prestazioni sociali. Una recente indagine dell’Istat sull’impatto delle prestazioni sociali sulle disuguaglianze di reddito in Italia conferma, ad esempio, come l’introduzione dell’Assegno unico per i figli a carico anche per le famiglie fiscalmente incapienti e composte da stranieri abbia contribuito a ridurre il rischio di impoverimento dei nuclei familiari. Un risultato superiore a quello ottenuto con i 25 miliardi di euro già spesi con il Reddito di cittadinanza. Un’occasione persa per riformare il Rdc e che in parte dovrebbe essere ripresa, data la scelta di potenziare l’istituto dell’Assegno unico annunciata dal nuovo Governo.

Un compito che dovrebbe essere esteso alla valutazione dell’efficacia delle misure fiscali, delle integrazioni ai minimi di pensione, dei sussidi ai redditi di varia natura che non hanno impedito il raddoppio del numero delle persone povere nel secondo decennio degli anni 2000 nonostante l’impiego aggiuntivo di circa 300 miliardi di spesa assistenziale a carico dello Stato.

L’altro versante che deve essere preso in considerazione riguarda l’efficacia dei sistemi dei controlli preventivi per l’accertamento della congruità dei redditi e dei patrimoni dichiarati dai richiedenti. Nonostante le arrabbiature dell’attuale Presidente dell’Inps Pasquale Tridico, il mentore del Rdc che minaccia querele verso coloro che criticano la gestione dell’istituto sulla materia, l’inconsistenza delle banche dati incrociate tra le diverse amministrazioni per la verifica preventiva della congruità delle dichiarazioni Isee è comprovata. Altrettanto comprovata è la mancata costituzione dell’Anagrafe nazionale delle prestazioni erogate dallo Stato e dagli enti locali per le medesime finalità. La gestione appropriata delle banche dati e degli strumenti di controllo rimane infatti una condizione indispensabile per raggiungere gli obiettivi e razionalizzare la spesa impegnata.

L’occasione di riformare il Reddito di cittadinanza, possibilmente recuperando il titolo più appropriato di Reddito di inclusione, non deve essere sprecata per alimentare un inutile polemica tra i presunti difensori dei poveri avversi ai loro persecutori, ma concentrando il confronto sull’efficacia degli strumenti rivolti a contrastare la povertà.

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