Il Reddito di cittadinanza va abolito, riformato, mantenuto o ampliato? Il fronte delle opinioni è estremamente variegato, analogamente a quello delle forze politiche che annunciano battaglie epocali sul tema.

In via di principio nessuno nega l’opportunità di avere nelle politiche del Welfare uno strumento finalizzato a contrastare la povertà. Le analisi dell’Istat nel merito sono impietose. Nel 2020, in coincidenza della crisi Covid, il numero delle persone in condizioni di povertà assoluta è arrivato alla cifra record di 5,6 milioni di persone. Causa della pandemia e della non adeguatezza delle risorse dedicate per contrastarla, è l’opinione espressa dai sostenitori del Rdc e da numerose associazioni che si dedicano all’assistenza dei poveri. Perché il Reddito di cittadinanza è uno spreco di risorse e non adatto allo scopo, secondo i detrattori, che evidenziano come il numero dei poveri sia aumentato di 1 milione, nonostante i 16 miliardi distribuiti ad oltre 2 milioni di famiglie e 4,5 milioni di persone a partire dall’aprile del 2019, considerando anche gli esiti dell’introduzione del Reddito di emergenza che ha allargato i requisiti di partecipazione nel corso della crisi Covid.



In effetti, per comprendere come riformare lo strumento, sarebbe utile analizzare l’impatto dell’intervento. A tal scopo l’ex ministro del Lavoro del M5s, Nunzia Catalfo, aveva nominato una commissione presieduta da Chiara Saraceno, da sempre schierata a favore dell’ampliamento del provvedimento, come del resto lo sono anche buona parte dei membri designati.



L’ Agenzia del lavoro nazionale (Anpal) ha pubblicato a fine 2020 un report, sulla base del monitoraggio dei dati Inps sui beneficiari, che, in buona sostanza, si limita a constatare che coloro che hanno beneficiato del reddito avevano migliorato la loro condizione economica. Il recente rapporto Caritas in materia sottolinea che il 36% dei percettori, per buona parte singole persone, hanno beneficiato dei sostegni senza averne i requisiti, mentre un 40% dei poveri, soprattutto le famiglie più numerose, non ne ha usufruito o lo ha potuto fare in modo ridotto rispetto ai bisogni.

Un’analisi effettuata dal centro studi Itinerari Previdenziali, che comprende anche il primo periodo di vigenza del Reddito di emergenza, confronta i numeri del Rdc con quelli delle indagini elaborate dall’Istat sulla povertà. Conferma gli squilibri richiamati a favore dei nuclei monocomposti (il 45% delle domande accolte), il sovra-utilizzo dello strumento nelle aree del Mezzogiorno (il 60% delle domande accolte), con un numero di percettori perfino superiore alle stime delle persone povere effettuata dall’Istat, mentre all’opposto la quota dei beneficiari residenti nelle aree del Nord Italia (il 25% sul totale Rdc) equivale solo a un terzo dei numeri rilevati dall’Istituto di statistica. Su queste differenze pesano gli effetti del requisito dei 10 anni di residenza in Italia per poter beneficiare del sussidio, introdotto per limitare la partecipazione degli immigrati. Una limitazione che ha comportato una riduzione del 70% della potenziale partecipazione degli immigrati in condizioni di povertà stimati dall’Istat (circa 1,5 milioni pari al 29% del totale), due terzi dei quali residenti nelle regioni del Nord Italia, con una rilevante quota di minori a carico.



Gli esperti considerano questi esiti come il frutto dei meccanismi distorti contenuti nel provvedimento originale.  Oltre a quello ricordato per gli immigrati, segnaliamo i criteri introdotti per stimare  l’importo massimo degli assegni che penalizzano le famiglie numerose, soprattutto quelle con più tre o più persone a carico; i limiti di reddito e patrimoniali per accedere ai benefici,  e per calcolare gli importi dei sussidi  che sono uniformi per tutto il territorio nazionale  penalizzando di conseguenza  le famiglie residenti nelle aree metropolitane, e del Nord Italia, che devono far fronte a un costo della vita più elevato rispetto agli altri territori.

L’origine di queste distorsioni non è affatto incidentale. Molti ricorderanno che la campagna elettorale del M5s era centrata sulla proposta di erogare 780 euro mensili alle persone prive di occupazione. La conversione successiva verso una misura per il contrasto della povertà è avvenuta per la carenza di risorse disponibili. Rimediate in parte con le limitazioni introdotte per le famiglie numerose e per gli immigrati, la seconda per ragioni politiche, per cercare di mantenere elevato l’importo dell’assegno di base riservato ai nuclei familiari monocomposti per avvicinarlo il più possibile alla promessa elettorale. Non a caso gli esponenti dei Cinquestelle vantano tuttora di aver introdotto il sussidio di importo più elevato tra quelli vigenti nel contesto europeo per il medesimo scopo. Trascurando il fatto che le scelte degli altri paesi sono state ponderate tenendo conto della consistente quota di persone povere dipendenti da alcol, droghe e giochi d’azzardo, verso le quali l’erogazione di sussidi finanziari risulta controproducente. In questi casi le amministrazioni pubbliche intervengono in presa diretta per garantire alle persone servizi di cura e di sostentamento economico.

La valutazione negativa sulle politiche attive previste per i beneficiari del Rdc in età di lavoro è ampiamente condivisa. Il fallimento viene genericamente attribuito alla bassa occupabilità, peraltro prevedibile, di una buona parte del milione delle persone che dovevano sottoscrivere il patto di servizio per essere avviate nei percorsi formativi e verso nuove opportunità lavorative. Sfugge alla maggioranza dei commentatori il fatto che la normativa del Rdc prevede che agli interessati possono essere offerte solo proposte di lavoro a tempo indeterminato, non inferiori a 858 euro mensili, escludendo di fatto i lavori a termine e part time. E consente loro di poter rifiutare le prime due offerte di lavoro continuando a beneficiare dell’assegno pubblico. In queste condizioni, chiedersi se il Reddito di cittadinanza sia disincentivante per la ricerca di un nuovo lavoro è del tutto superfluo (e lo ammettono a denti stretti anche molti sostenitori del Rdc).

Se queste analisi hanno un fondamento, le motivazioni per mettere le mani sul Reddito di cittadinanza risultano abbondanti.

In via generale, come  recentemente ricordato da Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera, si tratterebbe di ridurre il sussidio di base del Rdc per le persone singole, di aumentare gli importi del Rdc per le famiglie numerose sulla base dei carichi reali, di ridurre i vincoli di residenza per incrementare la partecipazione degli immigrati, di differenziare i criteri di valutazione del reddito e del patrimonio per accedere ai benefici, e degli importi degli assegni, in relazione al costo della vita dei territori di appartenenza.

Per la parte delle politiche attive, di ricondurre negli ambiti appropriati la gestione dei percorsi di inserimento, prevedendo l’obbligo di accettare tutte le offerte di lavoro previste dalla legge e dai contratti collettivi.

Un approccio ragionevole, ma che trascura alcuni problemi. Il primo è rappresentato dalla necessità di razionalizzare il provvedimento alla luce di tre novità importanti: l’introduzione dell’assegno unico per i minori per le famiglie fiscalmente incapienti, comprese  quelle degli immigrati regolarmente residenti; l’attuazione di due sentenze della Corte di Giustizia europea, che vincolano l’Italia a erogare gli assegni familiari anche per i figli degli immigrati residenti nei paesi di origine; le prospettive del Reddito di emergenza, tuttora in vigore, che ha ampliato i criteri di reddito, patrimoniali e di residenza per l’accesso ai provvedimenti. In un recente articolo abbiamo sottolineato anche gli effetti dirompenti che le novità relative agli immigrati, se recepite acriticamente, potrebbero comportare sulle politiche per l’immigrazione. Appare ragionevole, in questi casi, erogare l’assegno unico solo ai minori residenti in Italia, siano essi italiani o stranieri…

Il secondo: per motivi elettorali il Reddito di cittadinanza è stato introdotto in fretta e furia, azzerando la sperimentazione di quello di inclusione, in assenza delle banche dati incrociate tra le amministrazioni, e del casellario nazionale dell’assistenza finalizzato a monitorare le prestazioni erogate per lo stesso scopo da parte di enti diversi. In buona sostanza, l’Inps ha approvato le domande sulla base delle dichiarazioni Isee autocertificate dai richiedenti.  Le indagini svolte a campione dalla Guardia di finanza, su mandato di diverse amministrazioni, per verificare la congruità delle dichiarazioni Isee, fanno presagire che gli abusi non siano affatto marginali, e non delimitati alle circostanze che hanno fatto scalpore sui mass media. Il problema non si risolve con le normative, ma migliorando la qualità dei controlli preventivi.

La terza, forse la più importante: con la riforma dei sostegni al reddito, il governo si accinge a iniettare risorse aggiuntive, almeno 8 miliardi di euro, per la finalità di aumentare le tutele dei soggetti più vulnerabili nel mercato del lavoro. Per il completamento della riforma dell’assegno unico per i minori viene stimato un fabbisogno aggiuntivo di 7 miliardi di euro. Per il Reddito di cittadinanza e altri provvedimenti assistenziali sono stati già stanziati 2 miliardi aggiuntivi per il breve periodo e altri 4 miliardi per gli anni a venire.

La tendenza è sempre la stessa: quella di utilizzare ogni pretesto, da ultimo il Covid, per aumentare la spesa assistenziale con interventi tra loro scoordinati. Aggiungendo risorse e interventi per rimediare ai problemi non risolti, ma evitando accuratamente di rimediare le storture dei provvedimenti precedenti. Giova ricordare, ad esempio, che un emendamento proposto recentemente da una parlamentare del M5s (!) per obbligare i beneficiari del Rdc ad accettare le offerte di lavoro a termine è stato respinto dalla maggioranza parlamentare.

Tra il 2008 e il 2019 la spesa assistenziale, solo per la componente erogata dallo Stato, è aumentata da 74 a 114 miliardi l’anno, per un volume complessivo superiore ai 250 mld. Nel medesimo periodo il numero delle persone in condizioni di povertà assoluta si è incrementato da 2,5 milioni a 5,6 milioni.

Il tema meriterebbe una maggiore attenzione. Il Reddito di cittadinanza è diventato il simbolo di una deriva assistenziale, ma non basterà la riforma di questo provvedimento per contenerla.

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