Il nostro Servizio sanitario nazionale è una delle più grandi conquiste sociali italiane. Ha garantito e garantisce da quattro decadi livelli di assistenza e modalità di erogazione che altri paesi ci hanno invidiato. Tanto che spesso il Ssn italiano è stato in cima alle classifiche di valutazione dei sistemi sanitari.



Anche quei primi posti in classifica vanno però contestualizzati. Se andassimo a misurare il finanziamento in funzione dell’aspettativa di vita aggiustata per disabilità (Disability-Adjusted Life Years, DALY) non saremmo più così alti in classifica. Gli effetti sono quelli di cui si accorgono utenti e pazienti: liste di attesa lunghe, disparità e frammentazione dei servizi sanitari e della qualità dell’assistenza tra regioni (e spesso all’interno della stessa regione), carenze strutturali di personale, mancanza di gestione integrata delle patologie croniche, pochi investimenti in innovazione e sviluppo.



Ma la salute di un individuo e di una popolazione è influenzata da diversi fattori, di cui i determinanti sociali sono i primi interpreti e spesso sono quelli che definiscono la fragilità, la vulnerabilità. La vulnerabilità è proprio il minimo comune denominatore delle disuguaglianze sociali. Sono vulnerabili gli anziani più isolati, le persone con disabilità, i poveri, i migranti, chi vive ai margini della società; tutti, a proprio modo, più esposti alla malattia e, soprattutto, a un minore accesso ai servizi sanitari.

La sanità, con il modello universalistico che abbiamo in Italia può – o deve? – garantire che tutti possano curarsi allo stesso modo. Il sistema salute, quindi, va verso il cittadino con una ramificazione di servizi sino al territorio, ma guardando ad esempio l’interpretazione del Chronic Care Model CCM ci si rende conto che le regioni che lo hanno applicato in base alla patologia, alla diagnosi, hanno dovuto rivederlo.



Il Chronic Care Model passa da una sanità di attesa, di cura a una sanità di iniziativa: prevenzione, informazione, empowerment di pazienti e caregivers. Il passaggio cruciale deve essere da una visione della persona identificata con la sua diagnosi a un approccio biopsicosociale, in un’ottica personalizzata basata sul funzionamento in cui per alcuni l’intervento sarà più sanitario, mentre per altri più assistenziale. Persone con diagnosi uguale possono avere necessità diverse sulla base anche della loro interazione con il contesto ambientale in cui vivono e per i fattori personali, età, livello di istruzione, sesso, che li connotano.

La salute intesa quindi non solo come assenza di malattia, ma come benessere fisico, psicologico, mentale e spirituale, è data dalla compresenza di più fattori, che passano attraverso la comunità. In altre parole, benessere e salute passano da un’ecologia integrale, che consiste nell’aver cura di sé e degli altri, nelle relazioni.

L’emergenza sanitaria da Covid-19 ci ha ricordato e ci ricorda ogni giorno quanto questo tema sia presente e possa essere anche decisivo per la sopravvivenza delle persone, oltre che per un rafforzamento dell’efficacia e delle funzioni della sanità pubblica in senso stretto. A livello nazionale e regionale nella programmazione sanitaria diventa quindi necessario allineare la sanità alla salute e non viceversa; significa fornire assistenza di qualità sulla base dell’effettiva domanda di salute della popolazione, anche andando a rintracciare i bisogni inespressi con azioni di educazione e promozione della salute. Si può parlare di salute attraverso un impegno non solo sanitario, ma politico in senso lato, assicurando l’istruzione, l’implementazione di politiche del lavoro e della sicurezza sul lavoro, evitando l’esclusione sociale, le dipendenze e favorendo la sicurezza alimentare e nutrizionale.

Stimare il bisogno di salute è compito dell’epidemiologia, attraverso analisi e studi come quelli condotti da IHME (Institute of Health Metrics) con lo studio Global Burden of Disease 2019 (GBD) sulla copertura sanitaria universale (Universal Health Coverage, UHC) che offre un’utile risorsa per comprendere l’eterogeneità delle sfide sanitarie che deve affrontare la popolazione globale in questo XXI secolo, soprattutto nell’attuale situazione di crisi sanitaria da  Covid-19 (Measuring universal health coverage based on an index of effective coverage of health services in 204 countries and territories, 1990–2019: a systematic analysis for the Global Burden of Disease Study 2019; GBD 2019 Universal Health Coverage Collaborators,  Lancet 2020; 396: 1250–84).

Lo scenario che si prospetta è incerto, ma si può prevedere che il virus continuerà a circolare nei Paesi ad alto reddito per almeno tutto il 2021, e per alcuni anni continuerà a essere presente nei Paesi che non avranno un vaccino a disposizione. Una disuguaglianza inquietante sotto il profilo epidemiologico, che il Nord del mondo pare non aver ancora compreso. Ci si rende conto oggi dell’impatto che l’epidemia ha avuto sull’assistenza sanitaria, in termini di ritardo assistenziale o mancata assistenza, soprattutto per le malattie croniche e le multimorbilità. Secondo la Fondazione Gates (nel rapporto Goalkeepers), la pandemia sta portando indietro di molti anni la salute globale.

Secondo l’IHME, nel 2020, la copertura sanitaria sta regredendo alla situazione che avevamo negli anni Novanta. I governi spostano le risorse per cercare di gestire l’emergenza e le persone riducono drasticamente il ricorso all’assistenza sanitaria per contenere il rischio d’infezione: elementi costitutivi di una catastrofe sanitaria globale. Pagano lo scotto maggiore le fasce di popolazione sopra i 65 anni, dove si ritrovano condizione cliniche complesse e che assorbono normalmente i due terzi delle risorse.

Se prima alcuni cambi di paradigma erano necessari, adesso l’implementazione di modelli diversi di gestione sanitaria è indispensabile e non più rimandabile. Dobbiamo curare il paziente, che si trova a convivere con più patologie e non con una singola condizione clinica.

La sfida del prossimo futuro del sistema sanitario viene dalla possibilità di ristrutturare la rete di cura, con setting intermedi e domiciliari che prendano in carico il paziente nel tempo, riducendo il carico assistenziale ospedaliero. La gestione delle cure primarie però non richiede competizione tra comparti del Ssn, ma coordinamento tra i diversi livelli sistemici e i diversi attori professionali.

Lo choc della pandemia può essere l’occasione per ricostruire la comunità di pratica dei medici del territorio e per un cambiamento organizzativo che faccia leva sulle potenziali risorse delle cure primarie, sottolineando quindi la necessità di tornare a un’articolazione distrettuale che supporti la continuità dell’assistenza e l’integrazione per fronteggiare le situazioni emergenziali, al pari della cronicità.

Nel suo insediamento il nuovo presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha dichiarato che per una riforma della sanità il punto centrale è rafforzare e ridisegnare la sanità territoriale, realizzando una forte rete di servizi di base (case della comunità, ospedali di comunità, consultori, centri di salute mentale, centri di prossimità contro la povertà sanitaria). Secondo Draghi è questa la strada per rendere realmente esigibili i Livelli essenziali di assistenza e affidare agli ospedali le esigenze sanitarie acute, post acute e riabilitative. La casa come principale luogo di cura è oggi possibile con la telemedicina, con l’assistenza domiciliare integrata.

La pandemia da Covid-19 lascerà al sistema delle cure molte cose, ma una è cruciale: la trasformazione dei modelli di cura delle malattie croniche a seguito dell’utilizzo delle innovazioni digitali e dei diversi canali di telecomunicazione. Le prestazioni di telemedicina sono state erogate con soluzioni adottate in base alle condizioni di emergenza sanitaria, dovendo talvolta anche accettare livelli inferiori di qualità e sicurezza, pur di non accumulare ritardi nelle cure che avrebbero potuto portare con sé ulteriori implicazioni negative sugli esiti di salute.

Le indicazioni nazionali approvate dalla Conferenza Stato-Regioni  lo scorso 17 dicembre 2020 hanno iniziato ad aggiornare le prestazioni di telemedicina definendo le condizioni attuative per l’erogazione e gli standard minimi di servizio. Quando avremo terminato la fase emergenziale, avremo una doppia sfida: la gestione delle malattie croniche nel paese più anziano d’Europa e la svolta digitale. Parafrasando Richard Horton, direttore di The Lancet, Covid-19 è un’emergenza sanitaria acuta che va a impiantarsi su una situazione di cronicità, largamente ignorata.

Le malattie non trasmissibili hanno svolto un ruolo fondamentale nel decretare oltre un milione di decessi causati da Covid-19 e continueranno a plasmare la salute in ogni Paese dopo che la pandemia si sarà placata. La pandemia ha dimostrato che i servizi sanitari sono chiamati sia a evitare i casi di malattia e morte dovuti all’infezione sia a sostenere una normale assistenza sanitaria di qualità per le altre patologie. La resilienza dei sistemi sanitari è riconosciuta come una proprietà intrinseca dei sistemi stessi e, siccome un indice di copertura sanitaria è anche una misura di resilienza, è auspicabile che alla sua quantificazione concorrano anche indicatori di capacità di risposta alle epidemie, come la presenza di strutture di individuazione e segnalazione di focolai epidemici o la capacità di riconversione delle strutture per far fronte alle epidemie e ai grandi carichi di lavoro.

Un sistema ad alta intensità di lavoro non può prescindere da una politica del personale e questo è uno dei punti che impariamo dalla pandemia: promuovere un coinvolgimento responsabile degli operatori è indispensabile per generare contemporaneamente più efficienza e più qualità. Pur considerando il doveroso contenimento delle inefficienze e il necessario contributo al risanamento della finanza pubblica, non si devono toccare i princìpi di fondo che il nostro sistema ha da tempo adottato: universalità della tutela e solidarietà nel finanziamento.

Su entrambe le priorità, il livello centrale potrebbe svolgere un ruolo rilevante nel promuovere fra gli operatori e i cittadini responsabilità nell’uso delle risorse, spirito di appartenenza, etica della lotta agli sprechi, capacità di affrontare le sfide cui è chiamato un sistema sanitario da molti anni sottoposto a continue e difficili ristrutturazioni.

La vera partita della pianificazione e della programmazione oggi si gioca quindi nella ridefinizione dei finanziamenti ai fondi sanitari e nella riallocazione delle risorse, nella ridefinizione dei setting assistenziali, nelle stime del fabbisogno del personale anche alla luce dei provvedimenti di task-shifting a cui molti sono stati sottoposti nei momenti più acuti.

Ci siamo trovati non preparati rispetto a un fenomeno completamente nuovo, che stiamo imparando ad affrontare avvalendoci di strumenti e conoscenze che vent’anni fa non avevamo. Mentre combattiamo il coronavirus abbiamo anche la possibilità di combattere, a livello personale, regionale, nazionale e internazionale contro il “virus dell’individualismo radicale”, di cui parla Papa Francesco, e impedire che la legge del mercato abbia la precedenza sulla salute dell’umanità. Nessuno lasciato indietro per noi in Italia può e deve essere una affermazione, non una speranza.

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