Il Presidente della Repubblica non si tocca: deve rimanere garante dell’unità nazionale. E prima di parlare di premierato, e quindi di cambiare la Costituzione, è meglio modificare la legge elettorale, restituendo all’elettore la possibilità di dare la sua preferenza a chi vuole e varando una legge sui partiti. Per Francesco Boccia, capogruppo del Pd al Senato, il dibattito sulle riforme istituzionali ha preso la strada sbagliata. Vale anche per quanto riguarda la proposta Calderoli sull’autonomia differenziata, prima di affrontare la quale vanno definiti i livelli essenziali delle prestazioni e un fondo di perequazione per ridurre il gap tra aree più e meno sviluppate. Di questo parlerà, insieme ad altri relatori, nell’incontro che si terrà oggi al Meeting, voluto dall’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà.



Le riforme istituzionali sono da tempo un cantiere aperto, ora il dibattito si è spostato sui temi del presidenzialismo e del premierato. Due soluzioni su cui si può discutere?

Il dibattito sulle riforme è partito male. Le esperienze precedenti dovrebbero essere d’aiuto. Mi auguro che il confronto al Meeting serva anche a questo, a proposito di riflessioni sull’amicizia. Intanto le riforme istituzionali per essere condivise da tutti devono nascere da un impulso parlamentare. A maggior ragione quelle costituzionali. L’errore che fece Renzi, ma la stessa cosa ha fatto il centrodestra ai tempi della devolution, è stato quello di imporre a tutto il Parlamento, dal Governo, regole che tendenzialmente coincidevano con la visione di una maggioranza. Gli elettori nel loro insieme hanno sconfessato queste forzature.



Un problema di metodo?

La necessità delle riforme deve essere condivisa e ci deve essere un confronto parlamentare nel merito. Così oggi non è. L’azione del Governo in questi dieci mesi si caratterizza per essere un’azione faziosa e senza una prospettiva di lungo termine. Sulle riforme costituzionali siamo da mesi in attesa di una proposta concreta della premier, da quando, a maggio, convocò tutti i partiti per un confronto sul tema, ma poi nulla. Dopo l’estate l’esecutivo compirà un anno e non c’è stato un documento, se non fiumi di parole sui mezzi di informazione. L’unica cosa che c’è stata in Parlamento è una sgradevole contrapposizione sull’autonomia. E la percezione che abbiamo dall’opposizione è che l’autonomia di Calderoli non sia condivisa da Fratelli d’Italia e Forza Italia, ma che sia utilizzata in maggioranza come merce di scambio per trovare una mediazione sulle riforme costituzionali. Per il momento è una vicenda interna alla destra.



Ma nello specifico su presidenzialismo e premierato il suo giudizio qual è?

Il Presidente della Repubblica, garante dell’unità nazionale, non si tocca. La nostra Costituzione antifascista è ancora molto attuale e regge molto bene. Per rappresentare l’unità nazionale deve essere garante di tutte le forze politiche che di fatto sono l’espressione di tutto il popolo italiano, e non rappresentare la parte di popolo italiano che temporaneamente ha vinto le elezioni. Una cosa è governare il Paese, un altro tenerlo unito. Se parliamo di premierato per il momento nessuno sa di cosa si tratti, da mesi aspettiamo un testo. Abbiamo rilanciato chiedendo di modificare l’attuale legge elettorale, che non ha fatto altro che aumentare l’area del non voto.

Potrebbe bastare una diversa legge elettorale per assicurare la governabilità?

Certo. Non c’è bisogno di smontare la Costituzione per garantire la governabilità. Intanto una buona legge elettorale riavvicina gli elettori agli eletti. Il tema di fondo è la credibilità delle forze politiche, occorre una legge vera sui partiti: abbiamo ancora partiti che sono proprietà di alcune persone, in altri casi sono solo comitati elettorali; servono regole che disciplinano con rigore e trasparenza la vita dei partiti nel rispetto dell’articolo 49 della Costituzione.

Quindi bisognerebbe riprendere slancio da una legge sui partiti e dalla reintroduzione delle preferenze?

Servono democrazia interna ai partiti e rapporto diretto tra eletti ed elettori e non tra eletti e capi o in alcuni casi proprietari dei partiti. Sì, le preferenze possono aiutare così come avviene nei consigli comunali, in quelli regionali e per il Parlamento europeo. Non si capisce perché solo nel Parlamento nazionale non debba esserci un rapporto diretto con gli eletti. Si può tranquillamente rafforzare il concetto di coalizione: nessuno vuole smontare il bipolarismo che è nei fatti.

Bisogna evitare i ribaltoni?

Esatto. Su questo siamo tutti d’accordo. Però prima di smontare la Costituzione repubblicana, che porta la firma di statisti come De Nicola, De Gasperi, Terracini e il lavoro comune e i sacrifici di tutti coloro che si sono battuti per la libertà e per i diritti universali oggi garantiti, vorrei che ci guardassimo tutti allo specchio evitando gli errori del passato. Poi ci può stare il superamento del bicameralismo perfetto, che oggi appare superato anche dalle prassi parlamentari, ma dentro un confronto serio, rigoroso e trasparente, fino a oggi totalmente mancato. Vedremo al Meeting se si può ricominciare.

L’introduzione dell’autonomia nella Costituzione a suo tempo è stata voluta anche dal centrosinistra. Cosa, invece, vi fa essere critici nei confronti della proposta attuale di autonomia differenziata?

Quando fu fatta la riforma del titolo V, 22 anni fa, io da docente universitario la criticai molto ed ero personalmente contrario. Questo non mi esime dalle responsabilità che è sempre giusto assumersi quando si rappresenta la storia di una forza politica. Certo oggi indietro non si può tornare. Perché intanto è cambiato il Paese e le nostre amministrazioni territoriali. Quello che si può fare è migliorarne l’attuazione, farlo in modo chiaro, soprattutto sui temi che poi incidono sui bilanci delle Regioni e sulla vita delle persone: trasporto pubblico locale, sanità, assistenza a bambini e anziani, organizzazione della scuola.

Cosa insegna il dibattito su questo tema negli ultimi anni?

Nel 2019 fra i temi per i quali era caduto il primo Governo Conte c’era proprio l’autonomia differenziata. E a quel tavolo di quell’esecutivo, con la Lega regista, c’erano sedute solo tre Regioni: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna. Perché le Regioni del Sud e i Comuni non erano d’accordo? Per le stesse ragioni che sosteniamo noi oggi e portano  Calderoli a proporre lo “spacca Italia”. Nel 2020, poi, come abbiamo ricordato più volte in Parlamento a Calderoli, in Conferenza Stato-Regioni e in Conferenza unificata, in cui sono presenti anche gli enti locali, si era arrivati a un accordo unitario.

Quali sono le analogie con la situazione di allora?

Nel 2019, mentre Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna chiedevano l’autonomia, le altre Regioni chiedevano, come oggi, prima la definizione dei livelli essenziali di prestazione. Definiti i Lep c’è bisogno di un fondo di perequazione, che noi abbiamo stimato da 80 a 100 miliardi, perché è evidente che bisogna avvicinare le aree meno sviluppate a quelle più sviluppate, parlo anche delle aree interne e di quelle di montagna, non solo del Sud rispetto al Nord. Un terzo delle province italiane ha più anziani che popolazione attiva: è evidente che aumenterà la necessità di servizi alla persona. Questi temi non possono essere successivi all’attuazione dell’autonomia, sono prioritari. L’altro tema è la centralità del Parlamento che nel modello Calderoli non c’è: vogliamo che le intese istituzionali che dovranno essere firmate dalle Regioni siano votate in Parlamento. E che in quella sede siano approvati anche i Lep. Se si dice no a queste proposte si vuole spaccare il Paese in due e non si ricerca il dialogo. Noi non poniamo temi di parte ma temi nell’interesse esclusivo dell’intero Paese unito.

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