Si fa presto a dire inflazione. Ma l’aumento dei prezzi può avere tante motivazioni diverse che non si possono riassumere con le semplici regole monetarie. O frenare con un semplice aumento dei tassi e conseguente riduzione della domanda. Mettiamo il caso dei consumi petroliferi, ad esempio. Una parte dell’incremento dei prezzi è senz’altro legato all’aumento dei consumi.
Ma a spiegare il forte aumento del petrolio contribuisce in maniera determinante il taglio degli investimenti delle Majors occidentali per mettersi in linea, come chiesto da azionisti, tribunali e opinione pubblica, con il taglio delle emissioni di CO2. Una tendenza accentuata dalle difficoltà dello shale oil americano, in ritirata perché le banche diffidano di investimenti giudicati ormai troppo rischiosi sul piano della sostenibilità politica. Insomma, proteggere gli orsi bianchi dell’Alaska ha un costo. È giusto pagarlo, ma è altrettanto giusto sapere che la scelta comporta un prezzo. Fingere che le cose stiano diversamente è pura ipocrisia. Peraltro costosa se, invece di ridurre i consumi, ci limitiamo a sostituire petrolio estratto con criteri d’avanguardia con greggio in arrivo da Paesi che non hanno particolari precauzioni in materia.
Il cambiamento tecnologico, del resto, spesso comporta scelte costose. Da Taiwan, ormai la frontiera avanzata dei chips che fanno crescere la società elettronica, arriva la notizia che la siccità che sta colpendo una delle regioni più piovose del pianeta non minaccia solo l’agricoltura bensì proprio i chips, industria che richiede un forte consumo di acqua. È più prezioso il riso o un semiconduttore? Buona la seconda. Il Governo di Taiwan ha deciso di interrompere l’irrigazione di decine di migliaia di acri di terreno agricolo, al fine di dare priorità alla preziosa fornitura di acqua per la sua industria più importante. In alcune città, ha persino iniziato a razionare l’uso dell’acqua sospendendo le forniture per due giorni alla settimana. Nel frattempo, i principali produttori di chip hanno anche avviato i loro piani di emergenza per affrontare la carenza d’acqua, compresa la mobilitazione di camion d’acqua. TSMC ne ha ordinato oltre 100 per 30 milioni di dollari, il che potrebbe essere solo l’inizio di un costo dell’acqua inevitabilmente crescente da scaricare, ovviamente, sui clienti dell’auto o degli smartphone a loro volta destinate a salire.
A spingere i prezzi al rialzo, poi, c’è la geopolitica. La crisi della globalizzazione comporta la rinuncia a una divisione internazionale del lavoro che comporta la ricerca del prezzo più basso. Inoltre, la Cina, che è stato un formidabile fattore di deflazione nella prima parte del secolo inondando il mondo di prodotti a basso prezzo e imponendo nei fatti condizioni di lavoro low cost anche in Occidente, ha cambiato pelle: la fame di materie prime della sua industria, così come l’aumento dei consumi da parte di una popolazione più ricca, ha trasformato il Celeste Impero in una fonte di inflazione. Basti, ad esempio, il caso del latte: la Cina, terzo produttore mondiale, deve importare il 30% del suo fabbisogno. E non ha ancora prodotto effetti l’apertura al terzo figlio.
Gli esempi possono proseguire. Certo, buona parte di quest’inflazione è frutto degli scompensi creati dalla pandemia. Come dopo ogni catastrofe naturale, molte cose torneranno alla normalità in tempi ragionevoli. Ma c’è un’inflazione strutturale che batte alle porte, figlia della frenata dell’output gap, ovvero della distanza che corre tra il Prodotto interno lordo effettivo e quello potenziale, cioè quello che potremmo produrre se utilizzassimo in maniera più efficiente le risorse a nostra disposizione. Se la distanza tra i due numeri si riduce, per giunta in una situazione di natalità decrescente, allora crescono le pressioni inflazionistiche. Se, al contrario, la produttività cresce, si creano margini per una crescita virtuosa.
In altri termini, se avrà successo la scommessa di Draghi di imprimere al Paese un alto tasso di innovazione tecnologica all’insegna del digitale, allora l’Italia uscirà dalla morsa di uno sviluppo con il freno a mano tirato. Altrimenti resteranno le tare storiche ben descritte dal Governatore Ignazio Visco nella relazione di Banca d’Italia: “Il numero di microimprese con livelli di produttività modesti rimane estremamente elevato, mentre è ridotta la presenza di aziende medio-grandi, che pure hanno un’efficienza comparabile a quella delle maggiori economie a noi vicine. Nei servizi non finanziari le imprese con meno di 10 dipendenti impiegano quasi il 50 per cento degli addetti, il doppio che in Francia e Germania. La specializzazione in attività tradizionali e la piccola dimensione riducono la domanda di lavoro qualificato, generando un circolo vizioso di bassi salari e modeste opportunità di impiego che scoraggiano gli stessi investimenti in istruzione. Nonostante i progressi stimolati anche dalle politiche economiche, la spesa privata in ricerca e sviluppo resta molto più bassa di quella di Francia e Germania, nonché della media dei paesi avanzati”.
Che cosa occorre fare per rimediare? Tante cose per un lungo periodo di tempo. Cose che, in linea di massima, sono l’esatto opposto di quanto propongono i partiti, dai 10 mila euro per giovane estratto dalle tasse di successione a quota 100, dalla confusione tra assistenza e politica per l’impiego, tra assunzioni in blocco di gente bisognosa del posto e formazione. E non facciamoci illusioni: non basteranno né i quattrini in arrivo dall’Ue, né i tempi previsti dalla sospensione del Fiscal Compact. Ma non fasciamoci nemmeno la testa: l’importante è avviare un percorso virtuoso. Proviamoci.
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