Il presidente del Consiglio Mario Draghi e il ministro dell’Economia e delle Finanze Daniele Franco hanno sulla propria scrivania, in bella vista e anzi in modo che sia sempre sotto i loro occhi e quelli dei loro interlocutori, una “scheda” di poco più di sei pagine: sintetizza la tempistica delle riforme e delle altre azioni di politica economica a cui l’Italia si è impegnata per avere accesso ai fondi della Recovery and Resilienze Facility del programma Next Generation Eu. È la sintesi di quello che il ministro per la Semplificazione e la Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, chiama, in termini forse non filologicamente corretti ma eloquenti, “il contratto”. È stata creata, nell’ambito della Ragioneria Generale dello Stato, una struttura di missioni che il compito specifico di valutare e monitorare come l’Italia adempie al “contratto”. La posta in gioco è troppo alta per permettersi sbavature.
L’erogazione dei fondi dell’Unione europea, come avviene da quaranta anni per i prestiti per il “riassetto strutturale” di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale, si basa, infatti, su un accordo dettagliato che lega il supporto del finanziamento degli investimenti a riforme specifiche e puntuali che, nel caso dell’Italia, hanno l’obiettivo di favorire la crescita della produttività, stagnante da circa un quarto di secolo. Il presidente del Consiglio, il ministro dell’Economia e delle Finanze e – si dice – il ministro degli Esteri e della Cooperazione internazionale, hanno guardato alla tabella quando hanno deciso di stingere sulla riforma della giustizia, affossando una volta per tutte quelle modifiche della normativa sulla prescrizione che portano il nome dell’ex Ministro Alfonso Bonafede.
Sono anni che l’Ue e non solo ci chiede tempi più brevi per i processi e norme più garantiste per coloro in attesa di giudizio. È noto, anzi notorio, che le imprese straniere non investono in Italia e quelle italiane scappano all’estero a ragione in gran misura di un sistema giudiziario le cui carenze sono (soprattutto da alcuni mesi) sotto gli occhi di tutti. La riforma della giustizia è uno degli architravi del Pnrr tanto che “il contratto” prevede la “calendarizzazione” alla Camera dei deputati entro giugno 2021. Abbiamo un mese di ritardo che comporta affrettare i tempi nel resto del percorso.
Come vanno le altre riforme? Le più urgenti, nel “contratto”, sono quelle in materia di reclutamento nella Pubblica amministrazione, semplificazione in materia di processi burocratici, ambiente ed edilizia. Il Governo ha fatto la sua parte con apposite misure normative, ora all’attenzione del Parlamento che dovrebbe accelerarne l’esame riducendo se per caso le proprie vacanze estive o rinunciandovi del tutto.
Le minacce dei 5 stelle in materia di giustizia hanno poi fatto slittare a settembre la considerazione da parte del Consiglio dei ministri della legge annuale sulla concorrenza e della legge delega sulla riforma tributaria. Sarà necessario recuperare, accelerando i passi successivi.
C’è, poi, un aspetto che preoccupa il Governo e Bruxelles: la “prova generale” della digitalizzazione (ossia l’emissione di certificati vaccinali chiamati green pass) sta andando meno bene del previsto: ritardi, proteste, “appelli” lanciati dai giornali. Non è chiaro quanto il ministro della Transizione digitale e quanto il ministro per la Semplificazione e per la Pubblica amministrazione siano stati coinvolti in un lavoro che pare essersi svolto essenzialmente tra ministro della Salute, il Comitato tecnico scientifico e le Regioni (oltre che naturalmente le forze politiche). Uno studio del Decreto del presidente del Consiglio del 17 luglio sulla piattaforma nazionale Dgc dà l’impressione che il loro coinvolgimento sia stato minimo, pur se il documento porta la firma anche del ministro per la Transizione digitale.
Dalla lettura del documento si trae l’impressione che la piattaforma nazionale Dcg presso la Sogei – quella che deve generare i certificati verdi o green pass – nasca come un marchingegno organizzativo per meglio coordinare le piattaforme digitali regionali, già esistenti da alcuni mesi. Queste ultime, a loro volta, hanno in gran misura reso “numeriche”, ossia digitali, le procedure cartacee esistenti. Non si è tenuto conto che perché l’obiettivo venga raggiunto occorre modificare i processi, non utilizzare il computer per fare più velocemente quanto si faceva in modo cartaceo e in gran misura a mano. Già le piattaforme digitali regionali avevano mostrato le carenze di questo modo di operare (ad esempio, non includevano nel sistema regionale molti “vaccinati della prima ora” che avevano ricevuto la prima dose in ospedale o in una casa di cura e la seconda presso il medico di famiglia oppure presso il proprio domicilio).
Se non sono stati riveduti i processi e la base di tutto è la certificazione cartacea quale trasmessa da un ufficio a un altro (a cui viene sovrapposta l’informatica), alcuni nodi seri consistono in come trattare coloro che hanno avuto il Covid, ne sono stati guariti e ne sono immunizzati, ma di cui ovviamente manca la certificazione vaccinale cartacea, oppure come classificare gli immunodepressi che non possono essere vaccinati a ragioni di patologie oncologiche o di altra natura, oppure ancora gli italiani residenti all’estero ma non nell’Ue e che possono esibire certificati di Stati degli Usa oppure di altri Stati extra-Ue, oppure ancora i numerosissimi i cui certificati vaccinali regionali non “generano” i green pass in quanto, dato l’accento posto sulle organizzazioni e non sui processi, le unità regionali proposte alla bisogna non dialogano con la neonata piattaforma nazionale Dcg. Questo è uno scoglio che minaccia di diventare un iceberg.
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