Anche la Camera dei deputati ha dunque approvato – come già aveva fatto il Senato poche settimana fa – la proposta di legge costituzionale che abbassa il numero dei parlamentari.
Il testo prevede la riduzione del numero dei deputati da 630 a 400 e del numero dei senatori eletti da 315 a 200, con un taglio pari al 36,5% dei componenti elettivi. Sono conseguentemente ridotti anche i deputati e i senatori eletti nella circoscrizione Estero, che passano rispettivamente da 12 a 8 alla Camera e da 6 a 4 al Senato. Il testo interviene altresì sul numero minimo di senatori per ogni Regione (o Provincia autonoma).
Accanto a queste modifiche agli articoli 56 e 57 della Costituzione, contenute negli articoli 1 e 2 del provvedimento, l’art. 3 sostituisce il secondo comma dell’art. 59, specificando una cosa, infatti, ormai assodata, cioè che “il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal Presidente della Repubblica non può in alcun caso essere superiore a cinque”. L’art. 4, infine, fissa la decorrenza delle nuove disposizioni, applicabili dal primo scioglimento o cessazione delle Camere, ma comunque non prima di sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge costituzionale.
Come si è avuto modo di osservare, le ragioni alla base dell’intervento non parevano, fin dall’origine, così profondamente analizzate, esaurendosi in sostanza nel “riportare al centro del dibattito parlamentare il tema della riduzione del numero dei parlamentari, con il duplice obiettivo di aumentare l’efficienza e la produttività delle Camere e, al contempo, di razionalizzare la spesa pubblica”, allineando inoltre l’Italia agli altri Paesi europei, che hanno un numero di parlamentari eletti più limitato.
E nemmeno il dibattito avutosi nelle due assemblee sembra aver consentito un particolare approfondimento, anche per la prevalenza e l’esasperazione, nel corso della discussione, dell’idea di una riforma mirata e chirurgica, che ha di fatto impedito una riflessione di carattere più sistemico. Se questo può forse valere per istituti decisamente puntuali e circoscritti, sembra in realtà applicarsi non benissimo a una riforma che tocca la composizione delle due Camere, e dunque anche del Parlamento in seduta comune e dei suoi compiti, la connessa funzione di rappresentanza politica e i più delicati meccanismi di funzionamento delle istituzioni dello Stato.
Non è un caso, del resto, che la Camera stia procedendo, in parallelo, proprio in questi giorni, all’esame di un progetto di legge contenente le disposizioni per assicurare l’applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari, che non ha soltanto un contenuto tecnico, una sorta di adeguamento preventivo qualora si dovesse andare al voto prima della fine della legislatura, ma presenta profili capaci di impattare, tra l’altro, sulla dimensione dei collegi elettorali e dunque sulla rappresentatività degli eletti.
Con riguardo al merito, da almeno venti anni a questa parte, all’interno dell’infinita stagione dei tentativi di riforma della Costituzione, (anche) il numero dei parlamentari è stato oggetto di proposte di modifica. Come ben evidenzia il dossier predisposto dalla Camera, andavano in questa direzione il testo della Commissione D’Alema (XIII legislatura), la riforma del Centrodestra non approvata nel referendum del 2006, la c.d. bozza Violante (XV legislatura), e così via i successivi tentativi, fino alla riforma Renzi-Boschi bocciata nel referendum del 2016, che avrebbe invero lasciata inalterata la Camera, riducendo invece il numero dei senatori e trasformando il Senato in un ramo non più direttamente rappresentativo del corpo elettorale, con funzioni diverse rispetto all’altro.
Naturalmente, il fatto che la riduzione del numero dei parlamentari abbia rappresentato un elemento comune a tante proposte non significa che su questa vi sia e vi sarà (nella seconda deliberazione) un consenso trasversale da parte delle forze politiche, e ciò per evidenti ragioni, di ordine tecnico-costituzionale e politico. Anche perché, com’è noto, l’attuale maggioranza sta contemporaneamente portando avanti una proposta di legge costituzionale di riscrittura dei principali istituti di democrazia diretta (iniziativa legislativa popolare e referendum), che, se approvata, finirebbe inevitabilmente per fare sistema con quella della riduzione del numero dei parlamentari, incidendo fortemente sull’equilibrio indicato in origine dalla Costituzione tra democrazia diretta e rappresentativa, con conseguenze che andrebbero attentamente valutate.