Sono oltre 600 le pagine di motivazioni della sentenza che la Corte di Appello di L’Aquila ha depositato nel processo sulla strage di Rigopiano del 18 gennaio 2017, giorno in cui una valanga investì l’Hotel Rigopiano causando la morte di 29 persone. Lo rileva il sito Giurisprudenza Penale, che ha pubblicato il documento che ricostruisce il processo, gli appelli, le memorie, allegando appunto le motivazioni. Tanti i temi giuridici interessanti segnalati, come la causalità omissiva, l’individuazione di una posizione di garanzia, il tema della prevedibilità e del cosiddetto agente modello, oltre che della cooperazione colposa.
Partiamo dalla premessa che non si mette in discussione la causa materiale degli eventi mortali e lesivi, riconducibili alla valanga, d’altra parte la nevicata avrebbe dovuto far scattare subito la macchina emergenziale: ad esempio, andavano chiuse e pulite le strade, inoltre andava evacuato l’hotel. Questo è uno degli aspetti critici riscontrati dai giudici nel processo di secondo grado che si è concluso con la conferma di 22 delle 25 assoluzioni del primo grado, aggiungendo 3 condanne alle 5 del tribunale di Pescara, e confermando ad esempio quella per il sindaco di Farindola (e non solo).
I giudici d’Appello ritengono che le responsabilità della tragedia di Rigopiano vadano ricercate nella cattiva gestione dell’emergenza dal 16 al 18 gennaio 2018, con la nevicata e alcune forti scosse di terremoto, ma nelle motivazioni affrontano anche il tema del legame tra il sisma e la valanga, non per ravvisare responsabilità penali degli imputati, che sono racchiuse nelle mancanze e omissioni.
TRAGEDIA RIGOPIANO, “CATTIVA GESTIONE DELL’EMERGENZA”
Il principio su cui si fonda la sentenza di secondo grado è che il maltempo era così estremo da concretizzare il rischio di pericolo. Conta poco il fatto che in precedenza non si erano verificati mai episodi gravi, anzi c’era sicuramente la necessità di chiudere le strade, sgomberarla dalla neve ed evacuare l’Hotel Rigopiano. Ciò è quanto avrebbero dovuto fare in primis la Provincia e il Comune di Farindola, motivo per il quale sono stati condannati i funzionari del servizio strade della Provincia di Pescara (Paolo D’Incecco e Maurio Di Blasio) e il sindaco di Farindola, Ilario Lacchetta, oltre al responsabile dell’Ufficio tecnico del Comune, Enrico Colangeli. Lo stesso ragionamento spiega per i giudici d’Appello le condanne dell’allora prefetto Francesco Provolo e del suo ex capo di Gabinetto Leonardo Bianco, che erano stati assolti in primo grado. Il primo è venuto meno a diversi obblighi, tra cui quello di attivare il centro che coordina i soccorsi e la sala operativa, a cui si aggiunge la comunicazione al Ministero dell’attivazione degli strumenti di emergenza, cosa che invece non è avvenuta.
Queste omissioni, chiariscono le motivazioni della sentenza d’appello sulla tragedia di Rigopiano, non hanno però avuto effetti causali sulle morti: i tecnici, che erano stati sentiti, non avevano fornito indicazioni precise per prendere provvedimenti che avrebbero potuto impedire la strage. Ma nelle motivazioni si chiariscono altri due aspetti: non sono state riscontrate responsabilità della Regione sulla mancata preparazione della carta delle valanghe, che spettava al Comitato tecnico regionale per lo studio della Neve e delle Valanghe (Coreneva), e non spettava agli ex sindaci modificare i Piani regolatori, di competenza invece dei consigli comunali. Infine, la possibilità che si verificasse una valanga in quell’area non è stato considerato un elemento tale da vietare la realizzazione di strutture in quella zona molto grande.
IL REBUS DEL RICORSO IN CASSAZIONE
Intanto il ricorso in Cassazione è a rischio: non è ancora chiaro se la procura generale lo presenterà, quindi le famiglie delle vittime hanno annunciato un sit-in per sabato 8 giugno per chiedere che venga fatto. Dall’uscita delle motivazioni, 10 maggio, ci sono 45 giorni di tempo per il ricorso in Cassazione, quindi la scadenza è a fine giugno. La decisione spetta alla procura generale, del resto quello della parte civile sarebbe considerato debole, visto che la Suprema Corte partirebbe dal presupposto che la magistratura non si è opposta alle conclusioni dell’Appello.