La fiammata di prezzi che nell’ultimo anno ha riguardato diversi settori produttivi sembra fortunatamente affievolirsi. L’indice dei prezzi dei prodotti agricoli elaborato dall’Onu, dopo essere aumentato del 20% nei primi tre mesi del 2022 ed essere stato in leggera discesa nei tre mesi successivi, ha registrato una significativa diminuzione dell’8,6% fra giugno e luglio. 



In larga misura la contrazione è legata alla riduzione del prezzo del grano, di circa il 40% rispetto ai massimi di marzo e di più del 20% nell’ultimo mese, favorita, fra l’altro, dagli accordi che hanno consentito la partenza di alcune navi cariche di grano dall’Ucraina. Anche il prezzo dei fertilizzanti, che pure resta su livelli altissimi, si è abbassato di circa il 3% nell’ultimo mese. Così i microchip, che, dopo i forti aumenti di prezzo dello scorso anno, negli ultimi tre mesi hanno visto una marcata riduzione, fra il 10% e il 20% a seconda della tipologia. Anche gas naturale e carburanti condividono questi trend di prezzi che, pur restando molto alti, appaiono in diminuzione.



In un momento quanto meno di pausa (o auspichiamo, piuttosto, di fine) della spirale di aumento dei prezzi, può essere utile fare alcune riflessioni con una prospettiva per così dire “storica” sui rincari mondiali degli ultimi dodici mesi. Intanto, che cosa li ha causati? Gli analisti hanno addotto motivazioni diverse in ognuno dei settori. Il conflitto in Ucraina è stato certamente parzialmente responsabile dell’aumento del prezzo di elettricità e gas, nonché di quello dei fertilizzanti e del grano. A questi ultimi hanno contribuito anche la recente siccità e le difficoltà di organizzazione delle filiere globali del valore, legate alla pandemia. L’aumento della domanda mondiale, unito alla riduzione degli investimenti in capacità produttiva, ha invece dato impulso all’incremento dei prezzi dei microchip, alla base dei rincari di molti dei beni che ne sono dotati. 



C’è però un aspetto che hanno avuto in comune, nell’ultimo anno, grano, microchip, gas e fertilizzanti. Ed è quello che, in gergo economico, chiamiamo scarsità. Nonostante l’ovviamente apprezzabile tentativo, a livello individuale, di cercare di ridurre gli sprechi, l’economia funziona bene e consente di avere prezzi bassi, di poco superiori ai costi di produzione, solo quando i prodotti sono disponili in quantità abbondantemente superiori rispetto alla nostra domanda. In altri termini, affinché i prezzi si mantengano bassi è necessario che ci sia un cuscinetto di disponibilità di prodotto superiore alla domanda. 

Se ci pensiamo, d’altronde, questo è quello che succede anche quando prenotiamo un hotel. Ad esempio, se vogliamo passare una settimana in albergo in una località di montagna nella settimana fra Natale e Capodanno spendiamo molto di più – magari anche 3 o 4 volte tanto – di quanto non avremmo fatto se non fossimo andati nello stesso albergo in un una settimana di bassa stagione. Perché questa differenza di prezzo? In parte, magari, perché fra Natale e Capodanno i viaggiatori hanno in media disponibilità a spendere più alta che non nella bassa stagione. In realtà, tuttavia, la differenza principale è legata alla disponibilità di camere, e quindi alla concorrenza. Quando una località è sostanzialmente piena, ogni albergatore sa che tutti gli hotel, incluso il suo, si riempiranno, a patto che il prezzo sia più basso rispetto alla disponibilità a pagare dei clienti. Dunque potrà tarare il suo prezzo proprio su di essa, senza badare al prezzo degli alberghi concorrenti. In un momento di bassa stagione, invece, gli alberghi non sono pieni e si fanno concorrenza per attrarre clienti, e questo li spinge a ridurre i prezzi: insomma, si instaura la normale dinamica concorrenziale. 

La morale è duplice: che la dinamica concorrenziale è necessaria per mantenere il prezzo a un livello basso, vicino ai costi. E che la dinamica concorrenziale richiede di avere, nella località, una sufficiente capacità in eccesso – nel caso degli hotel un sufficiente quantitativo di camere -, destinata a rimanere invenduta. 

Il ragionamento vale anche per il grano. Quando non ci sono scorte sufficienti, i grandi esportatori non dovranno più preoccuparsi del fatto che il loro grano resti in larga parte invenduto (vista la disponibilità di prodotto solo di poco superiore alla domanda), ma, al contrario, potranno tarare il prezzo sulla base della disponibilità a pagare dei Paesi più ricchi, che non avranno la possibilità di strappare un prezzo più basso per la mancanza di effettiva concorrenza. 

Si potrebbe obiettare: ma perché il prezzo del grano aumenta anche in un Paese, come il nostro, che il grano se lo produce internamente? La risposta anche in questo caso ce la fornisce il mercato: in un sistema economico globale anche i produttori nazionali preferiranno vendere sui mercati internazionali, dove riescono a spuntare un prezzo più elevato.

Anche per quanto riguarda i microchip osserviamo una dinamica simile: con tutti gli impianti che producono sostanzialmente al massimo della loro capacità, è basso il rischio di non vendere la propria produzione, e quindi il prezzo riflette non il costo (come avverrebbe se la capacità produttiva fosse superiore alla domanda, e dunque se si instaurasse una dinamica concorrenziale), ma la disponibilità a pagare dei consumatori. Simile è il discorso per il gas e i carburanti, anche se complicato dalla presenza di monopolisti di proprietà statale, soggetti dunque a variabili geopolitiche, che esulano dalla finalità di questo articolo. 

Che cosa possiamo dedurre? Che affinché un’economia di mercato funzioni in modo fluido e garantisca prezzi relativamente bassi è necessaria una capacità produttiva (sia essa rappresentata da camere d’albergo, da terreni coltivati a grano o da depositi per conservarlo, da impianti che producono microchip, ma anche, ad esempio, da impianti che generano elettricità o da impianti di rigassificazione) ben superiore rispetto alla domanda. Solo così i consumatori potranno avvantaggiarsi dei benefici della concorrenza. 

Quando il settore pubblico decide di ostacolare le scelte imprenditoriali volte a aumentare gli investimenti in capacità produttiva, magari bloccando o rallentando la costruzione di un impianto di produzione di energia elettrica (o, per rimanere nell’attualità, di un rigassifcatore), oppure di un albergo o di un supermercato, dovrebbe prima fare un’analisi che tenga conto anche di questi potenziali effetti negativi per i consumatori.

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