Lunedì Centromarca ha lanciato un allarme sui costi della produzione rivolto in modo principale alla grande distribuzione che “dovrebbe porre la massima attenzione agli effetti negativi” di una “straordinaria anomalia dei mercati internazionali”. Il Presidente di Centromarca Francesco Mutti ha messo l’accento sul fatto che “i listini di tutte le materie prime vedono rincari a doppia cifra oltre a gravi problemi di reperibilità delle merci”. L’associazione italiana dell’industria di marca ha dichiarato che continuerà il proprio impegno “nel portare a conoscenza del Governo, delle forze politiche e dell’opinione pubblica una situazione di mercato che, se perdurante nel tempo, avrà pesanti effetti negativi sulla struttura produttiva dell’intero settore industriale dei beni di consumo operante in Italia”.



I prezzi dei beni che i consumatori trovano tutti i giorni sugli scaffali hanno riflesso solo in parte l’incremento dei costi che finora sono stati assorbiti in buona parte dalle imprese. Si presume che la grande distribuzione, questo con ogni probabilità il senso dell’intervento di Centromarca, abbia fatto da scudo scaricando il problema sulle imprese produttrici; le imprese però non riescono più a vendere allo stesso prezzo a causa dell’esplosione dei costi: elettricità, plastica per il packaging, alluminio, grano, soia, chicchi di caffè hanno tutti subito incrementi superiori o molto superiori alla doppia cifra. 



In questo scenario, aggravato da problemi di approvvigionamento, senza un aumento dei prezzi o un’impresa fallisce oppure è obbligata a rivedere profondamente la propria offerta. In questo secondo caso l’impresa sarebbe obbligata, sempre ammesso che possa, a concentrarsi sulle nicchie di mercato con i margini più interessanti sacrificando la quantità e riducendo sensibilmente il personale. Per i consumatori vorrebbe dire subire una duratura penuria di beni perché le aziende meditano queste decisioni per lungo tempo e poi molto difficilmente tornano sui propri passi. 

L’allarme di Centromarca conferma che l’incremento dei costi per le imprese è stato violento e inaspettato, vista la crisi del 2020, e che le decisioni sono state rinviate nell’attesa di una conferma sulla transitorietà o meno del fenomeno; nel frattempo gli incrementi sono stati assorbiti dai margini fino al punto di rottura. Questo avviene in un Paese, l’Italia, che è la seconda manifattura d’Europa e un esportatore netto e che mediamente ha piccole e medie imprese estremamente efficienti che hanno investito in tecnologia e capitale fisso in modo consistente. Sono “qualità” che hanno consentito di prendere tempo.



Oggi evidentemente non è più possibile proseguire in queste condizioni e un aumento dei prezzi è necessario; se i prezzi aumentano i consumatori dovranno prendere decisioni e diminuire le quantità e questo ovviamente è un male anche per la grande distribuzione.

È incredibile che in questo scenario nessuno metta in discussione una transizione energetica costosissima, come se fossimo ancora in piena deflazione e non fossero passati dieci anni di non investimenti in idrocarburi, e si moltiplichino i costi burocratici per le imprese. Come se la produzione e le imprese fossero un dato di partenza scontato. In queste stesse settimane si moltiplicano i casi di Paesi che introducono blocchi alle esportazioni per preservare i mercati interni e proteggere i consumatori dall’evoluzione dei mercati internazionali e dalle politiche monetarie. 

È una novità da monitorare attentamente perché significa che è molto più complicato comprare da fuori, con gli svalutatissimi euro, quello che non si produce in Italia. 

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