Che questi siano anni difficili, forse paragonabili al dopoguerra, credo sia convinzione condivisa da molti. Alla pandemia sanitaria, che ci accompagna dal 2020 e che non possiamo ancora essere certi di avere alle spalle, si aggiunge ora una nuova complicata situazione che – innescata dal conflitto tra Russia e Ucraina – rischia di colpire in modo pesantissimo le aziende, dando avvio a una nuova pandemia, questa volta economica, i cui effetti potrebbero tramutarsi in un’inedita e diffusa povertà sociale. 



Nel 2020, il blocco della domanda, determinato dall’esplosione della crisi sanitaria e dai successivi lockdown, ha generato perdite in tutta quella parte di manifatturiero non operante – direttamente, o indirettamente – nella filiera dei beni e servizi essenziali. In quel momento di grande concitazione, il Governo guidato da Giuseppe Conte, con la decisione di utilizzare i codici Ateco per indicare chi poteva continuare a lavorare e chi doveva fermare i propri impianti, ha accentuato i problemi mettendo in crisi tante aziende manifatturiere che hanno dovuto chiudere e servirsi degli ammortizzatori sociali in attesa che la situazione pandemica migliorasse.



Appena la crisi sanitaria si è fatta più gestibile, le aziende (sopravvissute) hanno, come ovvio, ripreso l’attività a spron battuto per recuperare i mesi di fermo produzione e per rispondere a una nuova domanda che, con il passare dei mesi, si è fatta sempre più vivace, fino a divenire euforica. Più ordini, raccolti in uno spazio temporale davvero ristretto, hanno determinato più produzione e dunque maggiore domanda di energia, di materie prime, di semilavorati e di componenti elettroniche indispensabili per produrre. Già dalla fine del 2020, e per tutto il 2021, era apparso chiaro che questo trend di crescita avrebbe determinato l’aumento dei prezzi di gran parte di questi beni che sono presenti nella quasi totalità delle filiere manifatturiere. 



In materia energetica, le compagnie distributrici hanno capito che potevano ricuperare, più e più volte, quanto non marginalizzato nel 2020: da lì è partito l’incremento dei costi per il gas così come per l’elettricità. Costi così alti che hanno indotto acciaierie e fonderie in primis, in quanto fortemente energivore, a fermare le loro produzioni poiché non profittevoli. Ciò ha ingenerato panico in tutto il manifatturiero, forte di un portafoglio ordini molto ricco, ma in attesa di ricevere semilavorati e componenti per completare le produzioni richieste del mercato.

Alcuni penseranno: perché se le imprese italiane non riescono a reperire i metalli non si rivolgono ai grandi produttori extra-Ue? La risposta è semplice: a livello europeo esistono norme anti-dumping e di contingentamento per materiali ritenuti strategici che bloccano la possibilità di approvvigionarsi su altri mercati. Ora ci chiediamo: pur comprendendo che il Paese debba difendere la produzione interna di materiali strategici, in un momento come questo, quasi assimilabile a una “economia di guerra” tale principio è ancora valido?

Sicuramente ci saranno commercianti che avranno stock di materiali a magazzino fermi così da alimentare ulteriormente la speculazione, ma credo si tratti di quantità, in ogni caso, non sufficienti a rispondere alla domanda delle aziende utilizzatrici. La situazione peggiorerà perché molti dei materiali base provenivano da Russia, Ucraina e Bielorussia, coinvolte in una guerra che speriamo si fermi prima che succedano azioni irreparabili a livello mondiale.

Cos’altro si può fare, oltre all’intervento europeo sopracitato, per aiutare le imprese in questo particolare momento? Nel settore dei macchinari, l’aumento rapido e incontenibile dei prezzi mette in gravi difficoltà le aziende. Infatti, nel periodo che intercorre tra la firma del contratto e la realizzazione e consegna del bene strumentale, e che arriva a 9-12 mesi nella maggioranza dei casi, i costi di cui l’azienda deve farsi carico possono aumentare fino a cambiare completamente il risultato economico della transazione.

Credo che le Autorità di Governo debbano iniziare a lavorare alla definizione di un indicatore ufficiale di riferimento dell’andamento dei costi, indicatore che le imprese potranno poi inserire nei contratti per prevedere la revisione del prezzo finale del bene. Questo indicatore dovrebbe essere un indice sintetico delle principali voci di costo di cui si compone il prodotto. Naturalmente ogni industria avrà necessità di un indice sintetico che tenga conto delle sue specificità tecniche, che dovrà essere studiato da un Gruppo di Lavoro composto dalle Associazioni di categoria e degli uffici tecnici del Ministero.

Credo che questa iniziativa possa essere un aiuto concreto al mondo dell’industria che, in Italia, risulta decisivo e fondamentale per la tenuta dell’intero sistema economico e sociale del Paese. Le aziende, oltre a generare profitto, sono anzitutto “attività” che assicurano occupazione e benessere per tutte le persone che vi operano e, di conseguenza, per tutte le famiglie coinvolte. Non dimentichiamolo.

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