Sono di questi giorni le immagini pesanti di ciliegie della varietà Ferrovia buttate a terra per protesta. Diversi agricoltori denunciano di venderle all’ingrosso a meno di un euro al chilo, per poi vederle rivendute nella grande distribuzione anche oltre i 12 euro, nel Nord Italia persino oltre i 20 euro.
È successo in Puglia, dove si coltiva più del 60% delle ciliegie italiane. Com’è già accaduto per altri prodotti agricoli, ora desta indignazione un rincaro della spesa alimentare che non giova a chi quel cibo lo produce: imprenditori e lavoratori. Ci sono poi altre varietà che neanche vengono raccolte, perché non ne vale la pena: tra aratura della terra, potatura delle piante, trattamenti fitosanitari, la fatica delle lavoratrici e dei lavoratori è enorme, e le spese dei produttori sproporzionate rispetto agli incassi. Con il paradosso che spesso nei supermercati si trovano ciliegie importate dall’estero. È positivo in questo senso che l’assessore regionale Pentassuglia abbia incontrato le associazioni di categoria e assicurato sia un’opera di persuasione sulla grande distribuzione che il rafforzamento dei controlli sui prodotti importati, ma il problema è più ampio.
Le nostre pregiate ciliegie sono divenute un simbolo infatti delle conseguenze che la pandemia potrebbe lasciarci in eredità. Si tratta di storture del sistema economico che come Fai Cisl stiamo denunciando da tempo, sostenendo ad esempio il disegno di legge contro le aste al doppio ribasso, ma che la tempesta perfetta della pandemia associata alle calamità naturali potrebbe rendere ancora più strutturali.
È intollerabile che davanti a 8 milioni di poveri, tra cui quasi 6 milioni in povertà assoluta, ci siano prodotti non raccolti e altri svenduti dalla grande distribuzione. Una discrepanza che fa il paio con un altro paradosso: davanti a un milione di disoccupati in più, e con una stima di 577mila posti a rischio secondo la Banca d’Italia, le imprese agricole lamentano la mancanza di manodopera. Segno dell’urgenza non solo di migliorare gli strumenti del mercato del lavoro, valorizzando gli enti bilaterali agricoli territoriali e le piattaforme digitali, ma soprattutto di riequilibrare il valore lungo tutte le filiere produttive e distributive e rendere il lavoro agricolo più attrattivo, grazie a maggiori tutele e riconoscimenti economici. Una battaglia che stiamo conducendo anche a livello europeo, dove abbiamo chiesto che nella riforma della Pac subentri la clausola della condizionalità sociale, vincolando gli aiuti economici al rispetto dei lavoratori e all’applicazione dei contratti: uno strumento in più per tutelare le imprese sane e dunque i lavoratori dal dumping e dalla concorrenza sleale.
Qualità del cibo e qualità del lavoro sono evidentemente due facce della stessa medaglia, eppure soltanto le mobilitazioni sindacali sono riuscite a far ottenere un bonus anche per i lavoratori agricoli e l’apertura di un confronto costante con il Governo su più fronti. Perché se è vero che le lavoratrici e i lavoratori agricoli hanno garantito il cibo sulle tavole degli italiani durante tutta la crisi pandemica, è anche vero che hanno perso milioni di giornate di lavoro, specialmente nei settori agrituristico e florovivaistico e nelle filiere legate al cosiddetto “canale Horeca”, quello di hotel, bar e ristoranti.
Prosegue intanto senza sosta, su tutti i territori, il nostro impegno per rinnovare i contratti provinciali agricoli, per troppo tempo fermi al palo: ne abbiamo rinnovati poco più di venti su circa novanta, ed è uno stallo non più giustificabile, che nega diritti e salario ai lavoratori.
Dunque i nodi da sciogliere sono diversi, e serve a poco limitarsi a criminalizzare la grande distribuzione. Bisogna piuttosto costruire proposte e condividere soluzioni. Ad esempio, così com’è accaduto per il sistema bancario, anche nell’agroalimentare l’introduzione di tassi anti-usura sarebbe una tutela importante per produttori e consumatori e, di conseguenza, anche per una più equa retribuzione del lavoro. Il ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali dovrebbe farsi interlocutore e indicare tramite l’Ismea quelli che sono i range idonei dei prezzi di ciascun prodotto, al di sotto del quale i consumatori sanno di contribuire allo sfruttamento dei lavoratori e all’affanno delle imprese, e al di sopra del quale si palesa una condotta speculativa da parte dei diversi intermediari commerciali.
Questo sistema sarebbe un aiuto in più per tutti, per uscire dalla crisi con una ripresa virtuosa, che non incrementi le diseguaglianze e faccia leva sull’Italia migliore, su un nuovo modello economico radicato nella sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Il Pnrr mobilita 248 miliardi, distribuiti in 6 missioni, tre obiettivi trasversali e 16 componenti. Quasi 7 miliardi sono previsti per il comparto agroalimentare e la sostenibilità. Ma è illusorio pensare che sia la manna dal cielo. Si tratta di costruire una visione del Paese che saremo da qui al 2050, non di spendere soldi dall’oggi al domani. Dobbiamo saperne fare buon uso per trasformare queste risorse in opportunità per tutti, e questo avverrà soltanto se lavoreremo insieme, con decisioni concertate, per un modello sociale nuovo, più solidale e più partecipativo.
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