Quattro nuove missioni militari, oltre alla conferma di altre già avviate, approvate dal Governo. E non solo per sostenere gli ucraini contro i russi. Nell’ambito della European Union Military Assistance Mission in Ucraina (Eumam Ukraine) l’Italia si è impegnata al riequipaggiamento e all’addestramento delle forze armate di Kiev, ma ha anche deciso di garantire un supporto per il controllo dei confini libici, e di sostenere le forze nigerine e del Burkina Faso contro le milizie jihadiste.
Interventi diversificati, spiega il generale Marco Bertolini, già comandante del Comando operativo di Vertice interforze e della Brigata Folgore in numerosi teatri operativi, tra cui Somalia e Kosovo, che tengono conto, in parte, anche del problema dei flussi migratori.
Generale, qual è il senso delle nuove missioni approvate dal Governo Meloni?
L’esigenza dell’approvazione di queste missioni non è tanto di carattere strategico, quanto contabile. L’Italia per finanziare le proprie missioni all’estero ha bisogno di una legge che viene fatta tutti gli anni. Ai tempi dell’Afghanistan il Parlamento ha approvato tutti gli anni il rifinanziamento dell’operazione. Si tratta, insomma, di un’esigenza tecnica. Poi per quanto riguarda le missioni nuove, quella relativa all’Ucraina è una missione europea: l’Italia si è impegnata in questa azione di supporto, anche materiale, dello sforzo bellico ucraino e ha l’esigenza di finanziarla.
Ma cosa faranno di preciso i nostri soldati?
Quello che stiamo facendo adesso: manderemo dei materiali, e per farlo c’è bisogno di diverse attività. E poi c’è l’addestramento.
Che tipo di addestramento?
Anche quello sulle armi contraeree, se ne è già parlato tempo fa. Nella legge non è specificato, l’importante è che si apra quella finestra, dopo di che la si riempie con quello che richiede la contingenza. Speriamo che ci si limiti a questo.
Che cosa intende dire?
Riterrei molto negativo che si facessero altri passi in direzione di un nostro coinvolgimento, che non sarebbe opportuno e neanche giusto.
La formazione dei soldati viene realizzata in Ucraina?
No, non credo. Trattandosi di una missione europea sappiamo che ci sono europei che sono in Ucraina. Per quello che riguarda gli italiani lo escluderei.
Probabilmente formeranno il personale in qualche Paese vicino?
Comunque non credo che ci siano militari italiani impegnati in Ucraina. La missione è riferita al supporto, quindi invio di materiali, e all’addestramento. Non dovrebbe esserci altro. Anche perché siamo in una fase in cui si aprono diverse possibilità: potrebbe succedere di tutto. Non credo che ora si sia in condizione di pianificare qualcosa di diverso da quello che è stato fatto fino a questo momento.
La missione relativa all’Ucraina è nuova, ma noi questa attività di supporto all’esercito di Kiev la facevamo già prima: è semplicemente cambiata la cornice, che è diventata quella di un progetto europeo?
Penso di sì. L’anno scorso abbiamo agito nell’emergenza, adesso ci troviamo in una fase nella quale questa guerra è una realtà consolidata, che andrà ancora avanti. Siamo in una situazione in cui il conflitto non è più una sorpresa, c’è bisogno di un quadro normativo chiaro in cui operare.
C’è qualche speranza che si apra una fase negoziale oppure ormai parleranno ancora le armi?
È un momento in cui si parla di un controffensiva ucraina. Kiev ha bisogno di un successo, anche parziale, per sedersi al tavolo delle trattative in posizione di maggior forza. Gli ucraini si stanno giocando il tutto per tutto. A livello negoziale pare che qualcosa si stia muovendo: la Cina ha fatto la sua proposta, bocciata dagli Usa. Adesso però pare che ottenga più attenzione e più consensi di quelli avuti alla primo tentativo. Potrebbe essere il segnale che si sta cercando una exit strategy. Penso che prima o poi si potrebbero verificare le condizioni per cui questo piano, o parte di esso, venga preso in considerazione.
Le altre missioni approvate cosa riguardano?
Tre su quattro sono missioni europee: oltre all’Ucraina lo sono quelle in Libia e Niger. Quella in Burkina Faso è bilaterale. La missione in Libia è finalizzata al controllo dei confini. La Libia è un territorio di passaggio, da lì si arriva in Italia, ma per farlo bisogna prima entrare in Libia e questo lo aveva già osservato il ministro Minniti a suo tempo: riteneva necessario aiutare la Libia a controllare i suoi confini meridionali. Probabilmente si tratta di qualcosa di analogo.
Ma perché interveniamo anche in Niger e in Burkina Faso?
Questa attenzione per l’Africa è doverosa, siamo nel Mediterraneo e siamo esposti all’Africa; è giusto controllarla perché è un territorio che impatta anche sulla nostra sicurezza.
Queste iniziative chi ce le chiede, sono nostre o arrivano dall’Europa?
Noi in Africa finora siamo stati presenti soprattutto a supporto dei francesi: eravamo in Mali, in Niger, e siamo ancora in quell’area. Si tratta di un’area molto delicata, che potrebbe essere fonte di grossi problemi, con movimenti jihadisti molto aggressivi. Prima se ne occupava la Francia, adesso ha tirato i remi in barca. Ritengo giusto che un Paese come l’Italia mantenga l’attenzione su questa zona.
C’è un legame anche con il problema dell’immigrazione? In fondo Niger e Burkina Faso sono nella fascia a Sud della Libia dalla quale spesso arrivano persone che puntano ad arrivare in Europa attraverso l’Italia. Interveniamo anche per questo?
Questo dovrebbe essere uno degli scopi della nostra presenza lì: il fatto che ci siano movimenti jihadisti è un fattore di pericolo e muovendo da un’area in cui il jihadismo prolifera si può pensare di fuggire e raggiungere l’Italia. E quello che si dovrebbe fare è aiutare a controllare un’area dalla quale si potrebbe partire verso la Libia o verso la Tunisia. Certamente non siamo in Burkina Faso per nostri interessi diretti.
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