AJ Griffin è un giovane giocatore professionista di pallacanestro di 21 anni, ruolo guardia/ala piccola, selezionato dagli Atlanta Hawks al numero 16 nel primo turno del draft 2022. Per gli Hawks ha giocato due stagioni fino ad essere ceduto lo scorso 27 giugno agli Houston Rockets. Le sue statistiche sono tutt’altro che disprezzabili: 92 partite con una media di 17 minuti e 7,5 punti a partita. Nel 2023-24 il suo utilizzo si era notevolmente ridotto passando a sole 20 gare rispetto alle 72 dell’anno di esordio.



Ha frequentato le scuole superiori presso l’istituto Archbishop Stepinac a White Plains (New York), poi il college presso Duke (per solo un anno di attività fino al draft 2022) dove ha giocato insieme a Paolo Banchero fino alla Final Four.

La sua pagina X (@whoisAG21) è piena di citazioni bibliche. Una di queste rammenta che la sua conversione è avvenuta nel 2020.



La notizia del suo ritiro dalle competizioni era stata anticipata, ma non se ne conoscevano le motivazioni, svelate da lui stesso pochissimi giorni fa, e poi riprese dalla stampa sportiva di tutto il mondo: “Rinuncio alla pallacanestro per seguire Gesù. Sono conscio che agli occhi di tanti, agli occhi del mondo, ciò sembra una perdita. Ma ci tengo a farvi sapere che sono super emozionato perché veramente vado a servire Dio, con un mio sì totale, e sento che questo abbandonare il basket mi permette di essere al servizio del Signore a tempo pieno, con tutto il mio cuore. Sono proprio eccitato per vedere dove tutto questo mi porterà”.



Per capire la portata di questa scelta Griffin, che aveva guadagnato nelle prime due stagioni con gli Hawks 7,2 milioni di dollari, rinuncia a un salario annuale di circa 3,9 milioni di dollari per il 2024-25 e di 6,0 milioni per il 2025-26.

Bisogna dire che la cultura americana, rispetto a quella nostrana, è più propensa, sia dal lato sportivo che da quello musicale, ad esternazioni che riguardano la fede personale, in questo caso rimanendo nel campo della fede cristiana e della pallacanestro professionistica, per cui sono diversi i casi di giocatori che hanno parlato delle proprie scelte di fede. Non tutti ovviamente fino al punto di rinunciare alla propria carriera sportiva.

Tra i più recenti il caso di Jonathan Isaac, centro degli Orlando Magic, tuttora in attività, che pur essendo giocatore di colore, fu l’unico a non inginocchiarsi durante i playoffs 2020 giocati nella “bolla” di Orlando, a favore della campagna Black Lives Matter. Ne abbiamo parlato in un articolo apparso su queste pagine (https://www.ilsussidiario.net/news/tyre-nichols-e-il-limite-del-black-lives-matter-gia-visto-nel-2020-da-jonathan-isaac/2481247/). Egli a proposito della sua esperienza di fede ha scritto un libro: Why I stand.

A una dozzina di anni fa risale invece la salita alle cronache nel febbraio 2012 del giocatore dei New York Knicks Jeremy Lin, che diede il nome al fenomeno della Linsanity, purtroppo per lui interrotto causa un infortunio che gli impedì di partecipare ai playoffs. Lin non aveva mai nascosto la propria fede cristiana, sin dagli anni universitari di Harvard. Dopo la rinuncia forzata alla NBA per assenza di opportunità, ed alcuni campionati giocati in Cina, ora Lin gioca in Taiwan dove ha recentemente vinto con i New Tapei Kings il campionato nazionale, giocando accanto al fratello minore. Ai suoi fans egli continua a trasmettere una newsletter periodica (Jeremy Prayer Requests) in cui alterna resoconti della sua attività sportiva a meditazioni personali in cui prevalgono gli inviti ad affidarsi totalmente a Dio in ogni momento, a fare opera continua di ringraziamento, con richieste di preghiere per sé, la sua squadra e le vicende tragiche e drammatiche del mondo di ogni giorno.

Un caso simile a quello di Griffin riguarda il veterano NBA Darren Collison.  Nel 2019, dopo 10 stagioni di attività e all’età di 31 anni, dopo aver guadagnato 43 milioni di dollari e rinunciando a un salario annuo di 10 milioni, egli annunciò il proprio ritiro con la decisione di dedicarsi alle persone meno fortunate come scelta di fede per l’appartenenza ai Testimoni di Geova. Egli ha dichiarato nell’occasione: “Amo la pallacanestro ma c’è qualcosa di più importante, cioè la mia famiglia e la mia fede. Sono un testimone di Geova e la mia fede rappresenta tutto per me. Ricevo tantissima gioia dal dedicarmi agli altri e a condividere un ministero in tutto il mondo. La gioia che provo non è paragonabile con nient’altro. Detto questo, ho deciso di ritirarmi dalla NBA”.  Non era l’ultimo arrivato nella NBA essendo uno dei pochi ad aver realizzato almeno 10 punti e 3,5 assists a partita in ognuno dei suoi 10 anni di attività.

Un caso controverso riguarda Mark Jackson, in particolare nel periodo in cui fu allenatore capo dei Golden State Warriors agli inizi del ciclo che portò ai vertici NBA questa squadra che si reggeva sulle prestazioni di Steph Curry, Draymond Green, Andre Iguodala e Klay Thompson. Con Jackson i Warriors non vinsero mai il titolo, poi invece raggiunto quattro volte sotto la guida di Steve Kerr. Jackson, amato dai suoi giocatori, contemporaneamente all’attività di allenatore svolgeva quella di predicatore, anche nelle strade. Aveva coinvolto i suoi giocatori in momenti di preghiera prepartita cui aderiva la maggioranza, ma non il centro australiano Andrew Bogut. Se c’erano partite di domenica organizzava due pullman: uno con i giocatori partecipanti alla funzione religiosa, il secondo per tutti gli altri. Le sue idee sul genere, sul matrimonio e la sessualità non erano gradite ai vertici della società. Dopo due anni di attività fu licenziato e l’opinione corrente fu che la dirigenza non condividesse le sue opinioni religiose. Fu molto criticato per la gestione di alcuni giocatori, fatti oggetto di giudizi “pesanti”: nel caso di Harrison Barnes addirittura che fosse posseduto da un demonio. Dopo il licenziamento nessuna squadra NBA volle assumerlo. Mark Jackson, nel ruolo di point guard, ha giocato nella NBA 1.296 partite tra il 1987 e il 2004 con una media di 9,8 punti e 8,0 assists a gara, risultando una volta All-Star.

Era comunque una prassi, ora pare in disuso, che prima di ogni partita ci fosse un momento di preghiera in tutti i campi NBA, dotati di una cappella. Anche Doc Rivers, di religione battista e allenatore di grido, era solito organizzare questi momenti, fino a quando l’obiezione di un giocatore di religione islamica lo indusse a sospendere il gesto, invitando i giocatori a momenti personali di preghiera.

Spostandoci invece nel campo femminile della WNBA, possiamo riscontrare che il detto di lega dove prevalgono giocatrici non eterosessuali non descrive pienamente alla realtà. Sappiamo infatti che la nuova star Caitlin Clark è cattolica praticante, anche se non fa uso dei social per esternare le proprie convinzioni religiose. Due esempi di esternazioni vengono invece, senza arrivare alla radicalità di Griffin, da Angel Reese, altra star esordiente, e dalla veterana Kelsey Plum. La Reese, dichiaratamente cristiana, in un post su X ha scritto: “La cosa migliore che chiunque può fare o dire per me è che essi abbiano pregato o stiano pregando per me”. Inoltre, la stessa Reese ha gradito molto la possibilità di avere una cappella dove potersi ritirare in preghiera nel palazzetto dove gioca: “Io prego prima di ogni partita” ebbe a dire nel 2023 prima delle finali universitarie poi vinte con la sua squadra LSU.

Kelsey Plum, una delle più forti giocatrici della lega, con due titoli consecutivi vinti giocando per le Las Vegas Aces, lei stessa una WNBA All-Star, componente della squadra olimpica Usa 2024, ha dichiarato commentando un anno per lei molto faticoso: “Dio non ci dà mai qualcosa che non possiamo sopportare. Credo che ciò sia vero. Così io cerco di stare attaccata a questo e di non deviare, poiché so che è questo che mi ha portata fin qui e che continuerà a farmi crescere”.

Si potrebbe scavare oltre questi pochi significativi esempi per descrivere meglio le sensibilità religiose esistenti nella NBA e nelle altre leghe professionistiche sportive americane, in cui non mancano analoghi esempi. Basti comunque osservare che quanto meno una sensibilità filantropica è diffusa attraverso molte fondazioni che fanno capo ai singoli giocatori, soprattutto in favore dei minori disagiati. A queste opere diversi sportivi hanno deciso di legare il proprio nome anche dopo il termine della carriera agonistica. Un esempio è quello di Dikembe Mutombo, grande asso NBA deceduto prematuramente pochi giorni fa. Nel 1997 egli ha fondato la Dikembe Mutombo Foundation per migliorare le condizioni di vita della Repubblica Democratica del Congo, suo paese d’origine.

 

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