Mario Draghi, anche ieri mattina in una rapida dichiarazione, ha ricordato a tutti, secondo consuetudine, di vaccinarsi, ma ha anche sottolineato con soddisfazione che la ripresa, il cosiddetto rimbalzo dell’economia italiana, va meglio di quanto si potesse prevedere e pensare. Il recupero del Pil rispetto al crollo del periodo della pandemia è notevole e supera quello della Germania e della Francia, tanto per fare un esempio.



C’è da aggiungere la fiducia delle imprese che è cresciuta notevolmente e il miglioramento nel maggio scorso della stessa produzione industriale. Sono dati e fatti confortanti, ma non possono farci dimenticare le difficoltà che l’Italia vive e viveva già prima della pandemia, con una carenza spaventosa di piani industriali, con una crescita stentata intorno allo 0,6% e soprattutto la perdita di molti brand che erano una garanzia per il made in Italy, che ora sembra in agonia. Il tutto accompagnato da un’autentica fuga di piccole e medie imprese verso altri paesi.



In un medio-lungo periodo, ci si chiede legittimamente, quale sarà il futuro industriale italiano?

C’è una fotografia impietosa, che non viene molto commentata dalla grande stampa, che passa quasi sotto silenzio, dell’esodo delle aziende italiane all’estero. Facciamo solo un breve riassunto di un rapporto uscito nel 2016 che aspetta solo un triste aggiornamento.

In quell’anno l’indiana Tech Mahindra acquistò tutte le azioni ordinarie di Pininfarina, un gioiello di 80 anni di ingegneria. Ma, a ben guardare, il caso Pininifarina è stato solo un esempio doloroso. Secondo Eurispes e Uil, alla fine del 2013, sono stati 130 i marchi italiani che hanno cambiato proprietà nel giro di un ventennio. Secondo un altro studio, negli ultimi anni, sono stati ben 500 i marchi italiani a passare in mani straniere.



Ci si può sbizzarrire: si va dai gelati Grom, ora di Unilever, alla Pirelli, dove il 51% è di proprietà di Chemchina, poi Ansaldo Breda andato ai giapponesi di Hitachi, quindi Italcementi presa dai tedeschi di HeidelbergCement, poi Indesit, finita con una tragica prova di incapacità alla Whirlpool.

Ma sono solo esempi, perché se solo pensiamo a un colosso come Telecom scopriamo che il maggior gruppo, che possiede il 14,9% del capitale, principale azionista della compagnia, è la francese Vivendi del ben noto Vincent Bolloré. C’è qualcuno che ha coniato anche una frase irrisoria e paradossale, osservando la grande fuga delle imprese italiane all’estero: “Made in Italy addio”.

A parte infatti i grandi marchi, con il made in Italy che ammaina la bandiera, c’è un fatto che appare ancora più inquietante. In uno studio che è apparso anni fa, preparato dalla Cgia di Mestre sulla banca dati del Politecnico di Milano e dell’Ice, si veniva a conoscenza che tra il 2009 e il 2015 il numero delle aziende italiane emigrate all’estero era salito del 12,7%, passando da 31.672 a 35.864, E già allora il trend non sembrava arrestarsi. Ma il fatto inquietante e grave che emergeva era che in questo caso non si trattava solo di grandi brand, ma dell’ossatura dell’apparato produttivo italiano che riguarda le piccole e medie aziende.

Cerchiamo di comprendere la questione spinosa in un breve dettaglio: il 40,5% di queste aziende riguardano il settore commerciale, il 23,1% riguardano il settore manifatturiero. Andiamo ancora di più nel dettaglio: le regioni che più investono all’estero e spostano la propria attività produttiva sono nell’ordine: la Lombardia con 11.637 casi, il Veneto con con 5.070, l’Emilia Romagna con 4.989, il Piemonte con 3.244. Stiamo parlando di una zona che riguarda il 40% del Pil nazionale.

Detto questo, si pensa in genere che la parte più consistente delle aziende italiane investa nell’Est Europa, ma questo sta apparendo sempre di più una leggenda metropolitana. Se guardiamo con attenzione, le aziende italiane, all’epoca di quello studio, erano emigrate con 3.300 realtà negli Stati Uniti, in Francia e Spagna con una uguale entità di 2.551 casi, in Germania con 2.228 e 1.991 nel Regno Unito, mentre in Cina sono andate 1.698 aziende. Tra i paesi dell’Est Europa compare di fatto solo la Romania, con 2.353 casi, anche se questa era un’antica consuetudine sin dai tempi di Nicolae Ceausescu che aveva con Licio Gelli interessi comuni sulla Lebole e trainava altre realtà.

Quale è la regione quindi di questa “grande fuga”? Secondo i dati del 2016, l’Italia si conferma come il Paese, tra quelli dell’Ocse, con il maggior carico fiscale con un livello che arriva al 49,2% contro la media del 34,3% nei 35 paesi dell’Ocse. Ad appesantire la struttura fiscale in Italia c’è l’alto tasso del livello sul reddito (26%), contributi sociali (30,1%), tasse sula proprietà immobiliare (6,5%).

Se l’imposizione fiscale è certamente alta, non vanno dimenticate altre questioni come l’allargamento degli interessi, la voglia di misurarsi con un mercato più ampio e la stessa difficoltà a trovare personale adeguato alla produzione che si fa. Ma non manca infine il perno della “certezza del diritto”, che assicura le aziende di fronte ai possibili guai che ogni impresa può attraversare. “In Francia esiste”, rispondono gli interessati che se ne sono andati dall’Italia.

Di fronte a una simile situazione si impongono una serie di problemi che vanno senz’altro affrontati dopo essere stati chiarificati. Il nodo della questione è in fondo questo: quale è il futuro dell’Italia? La sensazione che in questi anni si sia svenduto tutto e non esista neppure l’ombra di un piano industriale non è solo la denuncia di qualche sindacalista. La preoccupazione, dopo la svendita delle privatizzazioni e la crisi finanziaria del 20009, ha messo indubbiamente in ginocchio il Paese. Il resto lo ha fatto la pandemia, dopo anni di crescita bassa e confusione pentastellata a cui ha dato uno strano appoggio persino il Pd, non solo la Lega di Salvini, ma indirettamente anche la destra di Berlusconi e della Meloni.

Ora la speranza poggia tutto sul Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ma a questo va aggiunto anche un ripensamento dell’Europa. Se abbiamo fatto un passo verso gli stanziamenti per riprenderci dalla pandemia, se sembra che si faccia un altro passo verso il debito comune europeo, c’è un punto che riguarda la pressione fiscale che riguarda sia una riforma italiana, sia una complessiva riforma europea, dove paradisi fiscali e arbitrarie tassazioni non fanno che acuire differenze insopportabili e dislocazioni inevitabili di imprese.

A questo punto non si può che essere contenti per il rimbalzo economico italiano, per la riguadagnata fiducia delle imprese, per la ripresa della produzione, ma il problema italiano in questi vent’anni è stato talmente avvelenato che è vietato accontentarsi di un rimbalzo biennale.

Il problema è più complesso e profondo. Il vero problema esploderà dopo questo semestre bianco forse anche su piano istituzionale. Tuttavia è chiaro che questo semestre bianco sarà una sorta di “festival del litigio”. Si dovrebbe invece pensare alla ricostituzione di un sistema politico e sociale funzionale dopo questi anni sprecati di cosiddetta seconda repubblica.

Chissà se un minimo di buon senso riuscirà anche fermare la “grande fuga” imprenditoriale dall’Italia. Ma è questo il problema che segnerà il destino italiano.

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