La corsa per la Casa Bianca è di fatto già iniziata e si concluderà a novembre. Anche la Brexit è stata di fatto confermata attraverso le elezioni politiche nel Regno Unito, ma ancora non sono chiare le modalità del divorzio tra Uk e Ue. Incognite politiche che si aggiungono a quelle economiche per un 2020 che Mario Deaglio, Professore di Economia internazionale all’Università di Torino, definisce «un anno anomalo». «Volendo fare una panoramica mondiale, bisognerebbe cominciare dagli Stati Uniti. L’interesse del Presidente è far durare una fase di ottimismo, perché l’economia continua sì a muoversi, ma relativamente poco».



Meglio che in Europa però.

Se guardiamo al Pil per abitante, in ragione di un numero di cittadini che negli Usa aumenta più dell’1% l’anno, alla fine il dato non è tanto diverso da quello europeo. Trump ha quindi interesse, ovviamente in vista delle elezioni, a che ci sia una situazione di moderato ottimismo almeno sui mercati finanziari fino a novembre. Ci riuscirà? Non lo sappiamo. Questo è uno degli snodi fondamentali del 2020. Un altro riguarda la Cina.



Che continua a fare i conti con le manifestazioni ad Hong Kong.

Si tratta di una vicenda non marginale, perché se ci dovesse essere una nuova Tienanmen, Pechino potrebbe scordarsi la Via della Seta. Non è infatti difficile fare affari e collaborare con un gigante economico che bene o male segue le regole del capitalismo, ma se ci dovesse essere una rivolta soffocata nel sangue sarebbe difficile stare al tavolo con la Cina. E credo che la ragione per cui si continua a muovere coi guanti di velluto su Hong Kong sia proprio questa.

Come pensa invece che sarà la Brexit?

Francamente non credo che sia praticabile una Brexit “leggera” se non spalmata su tutto l’anno. Molto probabile quindi che entro il 31 gennaio si arrivi a un accordo che lasci lo status quo fissando una tabella di marcia per accordi specifici settore per settore. Ci sono tante cose di cui discutere. Per esempio, ci sono moltissimi progetti di ricerca scientifica, che sono finanziati dall’Ue e che coinvolgono università inglesi. Cosa succederà a questi progetti dopo la Brexit? Bisognerebbe decidere forse caso per caso. Quelli di cui abbiamo parlato sono i tre temi importanti sul breve periodo.



Cosa può dirci invece sul lungo periodo?

Occorre tenere sotto osservazione l’Africa, perché per molti aspetti è il vero crogiolo del mondo, lì la popolazione cresce. C’è molta terra che va resa irrigabile, creando le condizioni per far sì che non ci siano migrazioni. L’Economist aveva qualche anno fa ricordato che per superficie l’Africa è pari a Russia, Cina, Stati Uniti, Europa più qualche altro Paese. Ci si potrebbe quindi stare in 4 miliardi. Ecco perché bisogna tenere in conto l’Africa nel lungo periodo.

Nel lungo periodo c’è anche il piano dell’Ue per l’azzeramento delle emissioni di anidride carbonica entro il 2050 su cui Ursula von der Leyen punta molto…

Sono convinto che non basti. Noi dovremmo provare a toglierla dall’atmosfera l’anidride carbonica, non solo a diminuirne e azzerarne l’emissione. Non è così facile, ma ci sono dei progetti che si pongono questo obiettivo.

Restando in Europa, il rallentamento della Germania ha già determinato una frenata dell’export italiano, come messo in luce dai dati dell’Associazione industriale bresciana. Pensa che l’economia tedesca rallenterà anche nel 2020?

Temo che il rallentamento andrà avanti e spero che si fermi qui. È chiaro che se la situazione resterà questa, per l’Italia si porrà il problema di trovare altri mercati. Non è processo così facile e breve, sicuramente non si improvvisa. Il primo luogo a cui guardare è la Cina, dove certe interazioni già ci sono e potrebbero essere sviluppate. Naturalmente bisogna fare molta attenzione, perché i cinesi potrebbero voler creare joint-venture con maggioranza nelle loro mani, cosa che coi tedeschi non avviene.

L’Italia inizia il 2020 con diversi dossier economici irrisolti: Alitalia, ex Ilva, Whirlpool, ecc. Come pensa ne usciremo?

Vedo una situazione grigia. Non prevedo dei disastri, ma sicuramente nemmeno delle soluzioni facili. Anche perché Alitalia è un caso politico prima che economico, da sempre: i dipendenti sono in gran parte a Roma, rappresentano un bacino elettorale, ecc. Bisognerebbe purtroppo da un punto di vista tecnico realizzare una riorganizzazione interna che non si è mai voluta fare proprio perché i posti di lavoro non si potevano toccare. Se non superiamo questo ostacolo la compagnia continuerà a costarci qualche centinaio di milioni l’anno.

Dovremmo comunque affidare la compagnia a un altro vettore?

Qualunque altro vettore vorrebbe dei tagli al personale. Alitalia resterebbe poi a quel punto con una specializzazione per area geografica, essendo Roma in una collocazione ottimale. I voli interni non hanno invece molto futuro, vista anche la presenza dell’alta velocità ferroviaria.

Riguardo l’ex Ilva cosa può dirci?

Va anzitutto chiarita bene la situazione. A seguito dei dazi imposti da Trump, molti produttori di acciaio che esportavano negli Stati Uniti hanno visto davanti a loro una barriera tariffaria che rende meno conveniente l’export, che di conseguenza si è riversato principalmente sull’Europa. Quindi tutta la siderurgia europea è in crisi. Mentre Alitalia è un caso fortemente caratterizzato dalla situazione interna italiana, quello dell’ex Ilva dipende da una certa situazione internazionale. Noi abbiamo in ogni caso interesse ad avere un polo siderurgico nazionale.

Per quale ragione?

Perché l’industria italiana è in buona parte meccanica, perché tra un fornitore di acciaio e i clienti si stabiliscono dei rapporti anche tecnici che non è semplice ricostruire in breve tempo. Inoltre, la qualità dell’acciaio ex Ilva non si discute. Dobbiamo quindi giocarcela e in questo senso non escluderei un nuovo modo di guardare all’intervento pubblico in economia.

Un intervento come quello dell’Iri?

Non credo si possa resuscitare l’Iri come tale, ma sicuramente si può pensare a un intervento pubblico in economia con caratteristiche diverse. In parte si è già fatto, per esempio con il Fondo strategico italiano di Cassa depositi e prestiti, per far sì che la proprietà di aziende importanti rimanesse in Italia e muovendosi poi per trovare dei partner esteri. Dobbiamo pensare a un intervento di questo tipo, puntando sui fattori produttivi, quindi politiche per la ricerca, i brevetti, la manodopera qualificata, ecc.: bisogna “rifare” l’economia partendo dai fattori.

Qualcosa di diverso quindi dalla mera iniezione di capitali nelle aziende in difficoltà…

Per carità, quello è il modo peggiore di agire, è un’azione che ha poca efficacia. Lo vedremmo anche con Alitalia: senza cambiare nulla e iniettando solo capitali, tra sei mesi ci ritroveremmo allo stesso punto attuale.

(Lorenzo Torrisi)