Per l’Europa è una grande occasione. E quanto più consistenti saranno gli effetti su imprese e famiglie della doppia emergenza sanitaria ed economica tanto più l’Unione potrà mostrare il suo valore. Fino a che punto, cioè, sarà stata utile e determinante nel fronteggiare la crisi e apprestare le soluzioni.
I problemi posti dall’evento inatteso e straordinario dell’epidemia di coronavirus richiedono infatti risposte altrettanto straordinarie e anti-convenzionali. Così come non si può curare un arto rotto con un cerotto, così non è possibile sconfiggere la malattia ricorrendo alle misure di tutti i giorni. Serve un cambio di paradigma, una rottura netta con le ricette di ieri e di oggi perché la scala della minaccia impone di esplorare terreni incogniti esattamente come decise di fare nel 2012 l’allora presidente della Bce Mario Draghi quando contro il pericolo di recessione armò il cannone del Quantitative easing.
Occorre fare di necessità virtù. E accettare di rivedere regole e consuetudini se si vuole conservare la propria legittimazione istituzionale. L’Unione europea sarà giudicata – premiata o punita dai popoli – a seconda della reazione che saprà opporre all’invadenza del famigerato Covid19.
Non basta garantire rimedi medici (per quanto fondamentali) perché c’è un estremo bisogno di preservare – allo stesso tempo e non in un ipoteco futuro – la capacità industriale del Paese che basa sulla qualità e la capacità competitiva della sua manifattura la ricchezza nazionale e il benessere collettivo.
Insomma, a mali estremi estremi rimedi. Ed ecco come nasce la proposta di Confindustria, espressa dal presidente Vincenzo Boccia al premier Giuseppe Conte, di chiedere all’Unione europea di lanciare un grande piano d’investimenti infrastrutturali attraverso l’apertura di tutti i cantieri possibili. Con quali risorse? Attraverso l’emissione di eurobond per almeno 3.000 miliardi da trasferire subito, immediatamente, all’economia reale perché all’inevitabile caduta della domanda privata si sostituisca il prima possibile una tale massa di domanda pubblica da mantenere acceso il motore dell’economia.
Lasciando agli esperti lo studio degli aspetti tecnici – durata, tasso, rimborso -, appare evidente che si tratti di un intervento di sistema che chiama in causa la volontà di tutti gli Stati d’Europa di collaborare al superamento della fase calda del contagio e sperimentare nuove forme di coesione.
Emettere eurobond, infatti, vuol dire accettare di fare debito comune. E potrebbe essere il primo vero passo verso la sempre auspicata e mai realizzata unione politica del Vecchio Continente. Una cartina al tornasole per verificare se si accetti o meno di condividere un fardello per il bene comune.
Occorre ricordare, a questo proposito, che la fusione dei singoli debiti statali fu la condizione principale individuata da Alexander Hamilton – tra i padri fondatori e primo segretario al Tesoro d’America – perché nascessero quelli che conosciamo come Stati Uniti. Solo dopo arrivarono Fed e moneta comune.
L’Europa, com’è noto, ha scelto di percorrere la strada inversa. Ha prima creato l’euro e la Banca centrale – determinando l’unione monetaria – e poi divagato sulla possibilità di dare vita a un’unione politica molto più impegnativa e socialmente utile per creare una sensibilità e una popolazione europea.
Il momento non ammette distrazioni. Se l’Europa vuole giustificare la sua esistenza e provare a tutti – europei e non – che è nata per rendere migliore la vita dei suoi cittadini e risolvere le questioni più delicate che la storia s’incarica di sottoporle non può sottrarsi oltre alla necessità di una sua profonda riforma.