Le previsioni, una volta tanto, premiano la vecchia Europa: nel 2021 la crescita sarà del 5%, un soffio sotto quella cinese, probabilmente sopra quella americana. Ma anche l’inflazione, a differenza che in casa dei due Big, sarà sotto controllo con la parziale eccezione della Germania.
Un altro elemento positivo riguarda il recupero dell’Europa meridionale. L’Italia (+6,2%) prova per la prima volta il brivido di tassi di crescita del Pil alla cinese (anche Pechino quest’anno sarà sotto del 7%), largamente sopra al +2,7% della Germania. Solo la Francia supera di non molto il Bel Paese, ma, particolare non da poco, il debito di Parigi cresce assai di più: se si sommano debito pubblico ed esposizione delle famiglie, oggi la Francia risulta più indebitata della cicala “italiana”. Ma il maggior equilibrio finanziario nell’Eurozona rende possibile lo sforzo di Bruxelles sul fronte della finanza ecocompatibile: oggi i green bond dell’Unione europea sono probabilmente i titoli pubblici più solidi e apprezzati dai grandi investitori internazionali. Insomma, le 28 stelle dell’Europa unita brillano. Alla faccia della Brexit.
La congiuntura all’apparenza serena dell’Eurozona contrasta però con un quadro politico complesso, ove spuntano non pochi iceberg che minacciano di complicare la navigazione del convoglio: la crisi dei migranti a Est, solo 2 mila disgraziati ostaggio del bullo che spadroneggia in Bielorussia, basta a evocare la fragilità del Continente, ostaggio specie in inverno delle forniture di gas russo. Alla frontiera sud del continente si consuma la costante crisi politico/militare della Libia, i cui i principali attori sono ormai turchi, egiziani e mercenari dell’Est, che hanno sfrattato le inefficaci iniziative europee. Più che protagonista, l’Ue è un comprimario, trattato con sufficienza dagli Usa, ormai concentrati sullo scacchiere del Pacifico, dalla Russia che tiene ben strette le leve dell’energia e dalla Cina, che da grande cliente della Germania, sta diventando il suo concorrente numero uno, peraltro infastidita dalla mancata ratifica europea dell’accordo di fine 2020.
Ci vorrebbe un grande ammiraglio per dribblare gli ostacoli di una navigazione accidentata. Ma sta per andare in pensione la signora Merkel, l’unica indiscussa leader espressa dall’Europa negli ultimi 16 anni. C’è una debolezza strutturale e un’assenza di leadership che danno da pensare. Una situazione Ok, può facilmente trasformarsi in un rischio di Ko in assenza di una guida stabile.
È in questa cornice che, di qui a pochi mesi, l’Europa vivrà tre appuntamenti decisivi: 1) la nascita del nuovo Governo tedesco, in cui spicca la scelta del ministro delle Finanze, rigorista come il liberale Lindner) o più propenso a finanziare un ciclo di investimenti ambientali (i Verdi); 2) l’elezione del presidente della Repubblica italiana, in cui si definirà, tra l’altro, il ruolo di Mario Draghi, lo statista oggi più accreditato nell’Europa a 28; 3) il voto in Francia del 10 aprile, in cui si vedrà se a spuntarla sarà Emmanuel Macron, spostato più a destra per contrastare Marine Le Pen o l’astro nascente Eric Zemmour, ultima reincarnazione dello sciovinismo d’Oltralpe.
Una volta superata la stagione elettorale i nuovi (o vecchi) governanti si troveranno a gestire la partita del Patto di stabilità: una riedizione tout court è probabilmente impossibile, ma resta comunque urgente il riequilibrio dei conti, a partire dal rapporto deficit/Pil pari al 7,1% a fine anno. Una sfida che non si vince con alchimie da ragionieri o tagli improponibili in un continente che invecchia se non con sacrifici erculei. L’unica strada percorribile è quella della crescita. Ma l’Europa, grazie alla Germania, la prima potenza mondiale dell’export, dovrà fare i conti con i costi crescenti delle materie prime. Ostacolo insormontabile finché vale il no al nucleare. Ma non solo. Pare che il Reno sia ricco di cobalto, prezioso per le batterie dell’auto elettrica, ad esempio, ma i cittadini tedeschi escludono a priori uno sfruttamento che potrebbe comportare rischi. Al pari di quanto fa l’Italia con il prezioso gas dell’Adriatico.
E in questo clima assume grande attualità la domanda che si sono posti gli imprenditori italiani, francesi e tedeschi riuniti in questi giorni a Parigi: chi pagherà il costo della transizione energetica? I politici, si è lamentato Bonomi, non hanno la forza per imporsi all’opinione pubblica. E così a pagare il prezzo potrebbero essere le imprese, vittime di una sorta di dumping ecologico a vantaggio di Paesi meno “verdi” dei nostri. La soluzione potrebbe passare dai campioni europei, ovvero un mercato comune ove far crescere imprese in grado di competere alla pari con i Big americani o cinesi in un mondo dove le dimensioni che contano sono quelle della ricerca e della tecnologia. Ma qui le strade si dividono: chi si fida del condominio franco-tedesco? O, peggio ancora, di un pasticcio in salsa italiana? E chi paga i costi dei “campioni”?
Alcune scelte, specie in materia di economia digitale, produzione di chips e interventi sull’ambiente, richiedono nuove regole in materia di aiuti di Stato. Ma la svolta sarà accettata solo se, come avvenne per l’acciaio e il carbone negli anni Cinquanta, a imporla sarà una classe politica adeguata e credibile. E speriamo che la primavera ci porti buone notizie in merito. Mario Draghi è essenziale, ma da solo non basta.
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