Dopo lunghe tribolazioni e ardue “intese”, il Governo sta per finalizzare i due decreti legge che sarebbe dovuti essere gli strumenti per far sì che il 2019 iniziato con l’economia italiana in recessione sarebbe dovuto diventare, a detta del presidente del Consiglio, “un anno meraviglioso” e, secondo il vicepresidente del Consiglio, nonché ministro del Lavoro, degli Affari sociali e dello Sviluppo economico, “l’inizio di un nuovo miracolo economico”. Dato che è invalso l’uso di dare nomi da vecchio cinema parrocchiale a strumenti così aridi come i decreti legge, il primo è stato battezzato “sblocca cantieri”, il secondo “crescita”. Il primo è stato pubblicato a metà della settimana scorsa in Gazzetta Ufficiale. Il secondo viene riesaminato dal Consiglio dei ministri questa sera 29 aprile, ma date le forte tensioni all’interno dell’Esecutivo è arduo fare previsioni.



Sappiamo tutti che i cantieri non si “sbloccano” e che la crescita economica non si realizza per decreto. Sappiamo anche che gli elettori non sono così grulli da orientarsi secondo i titoli che vengono dati ai provvedimenti normativi. In aggiunta, i due decreti per diventare effettivamente nuove regole (finalizzate a facilitare l’apertura dei cantieri e agevolare la crescita) necessitano di un vasto numero di decreti delegati e altri provvedimenti. Almeno una volta la settimana, la Fondazione Openpolis ci ricorda, con le sue analisi meticolose e puntuali (nonché mai smentite), che la legislazione delegata non è affatto uno dei punti forti del Governo giallo-verde. Anzi, forse anche a ragione della litigiosità delle due parti del “contratto di governo”, pare che invalga la prassi secondo cui passata la Festa/ gabbato è il Santo.



Immaginando che, anche a ragione dell’avvicinarsi delle elezioni europee (occasione per un rendiconto agli elettori), la normativa delegata venga varata d’amore e d’accordo e con la velocità di Speedy Gonzales, occorre chiedersi in che modo i due provvedimenti favoriscono lo sviluppo e se l’Esecutivo ha davvero l’intenzione di puntare sulla crescita. In effetti, l’analisi dei due decreti è un modo per comprendere quelle che gli economisti chiamano le preferenze rivelate del Governo, ossia quelle che sono, al di là delle dichiarazioni e dei tweet, le preferenze vere e sostanziali dell’Esecutivo.



I due provvedimenti sono stati esaminati in dettaglio sulla stampa economica e su siti specializzati. Quindi, in questa sede ci si limita agli aspetti salienti. Lo sblocca cantieri facilita in un certo qual modo gli affidamenti dei lavori pubblici e propone la vecchia misura dei commissari (più o meno) ad acta, ma è un passo indietro rispetto alla legge n. 443 del 2001, conosciuta soprattutto con il nome di Legge Obiettivo, e quel che più conta non sfiora neanche i gravissimi problemi (di produzione e di occupazione) dell’edilizia; suggerisco ai lettori interessati di leggere le acute riflessioni pubblicate qui per toccare con mano la serietà del tema e quanto poco si faccia per affrontarlo.

La difficile gravidanza del “decreto crescita” non ha riguardato misure direttamente rivolte allo sviluppo, ma in che modo lo Stato dovesse accollarsi parte dei debiti di Roma Capitale e cosa fare per rimborsare i risparmiatori che, a ragione o a torto, si ritengono truffati dalla banche andate in dissoluzione, nonché come rinazionalizzare Alitalia. Misure, soprattutto l’ultima, discutibili ma che non incentivano la crescita.

Gli articoli che riguardano in qualche modo lo sviluppo sono la re-introduzione del superammortamento concepito e messo in vigore dal Governo precedente e cassato nell’ultima Legge di bilancio, qualche modesto incentivo al rientro in Italia di docenti e ricercatori trasferitisi all’estero, un’estensione della legge Sabatini per l’agevolazione agli acquisti di beni strumentali, un piccolo fondo di garanzia per le medie imprese. Sono misure indubbiamente utili ma non tali da far sì che un anno iniziato in tonalità minore si concluda con un crescendo rossiniano.

Quindi la domanda: il Governo vuole la crescita? Nonostante, i due partner abbiano litigato per settimane sul decreto, una lettura attenta del Def, documento redatto e firmato dal ministro dell’Economia e delle Finanze, ma approvato dal Consiglio dei ministri nella sua collegialità e inviato alle Camere e alle istituzioni europee, dimostra che si propone agli italiani una crescita cumulativa appena dello 0,8% del Pil per l’intero triennio 2020-2022, ossia di un aumento del Pil attorno allo 0,2%-0,3% l’anno. Per ammissione dello stesso Esecutivo, quindi, le politiche a cui si mira vogliono dire stagnazione e un po’ di redistribuzione tramite il reddito di cittadinanza, un ancora nebuloso programma di sostegno alle famiglie e la reintroduzione in qualche guisa delle pensioni di anzianità. I due decreti confermano queste preferenze.

D’altronde il popolo pentastellato si è aggregato attorno gli slogan decrescita felice e prima redistribuzione e poi crescita. A fronte di queste finalità, aumenti del Pil dello 0,2-0,3 % sono una grande concessione al suo partner nell’intrapresa di governare l’Italia. La Lega a lungo espressione delle imprese del Nord si è dovuta piegare alle esigenze del suo socio, che ha maggiore forza parlamentare. Ha ingoiato una tassa di dubbia costituzionalità sui pensionati, il “raffreddamento” dell’indicizzazione e un “contributo di solidarietà” che potrà costargli il supporto elettorale della categoria: i “pensionati arrabbiati” tengono un Congresso a Firenze dal 27 al 30 aprile per ribadirlo. Ora il brain trust economico della Lega vagheggia un “modello giapponese” caratterizzato da alto debito pubblico e crescita contenuta. Dimentica che negli ultimi vent’anni, l’Impero del Sole ha segnato una crescita media dello 0,7% l’anno (rispetto all’1,3% l’anno della pur scalcagnata eurozona) e che l’alto debito nipponico è finanziato esclusivamente sul mercato interno, mentre per un terzo di quello italiano si deve fare ricorso all’estero. Dimentica anche che in Giappone la Legge Fornero sarebbe vista come una manna dal cielo per chi vuole andare a riposo perché laggiù si va in pensione a 70 anni e con un trattamento che è attorno al 35% dell’ultimo stipendio.

E come il Figaro mozartiano, più nol dico.