“Non illudiamoci che si possa tornare al mondo di ieri”, ammonisce Mario Deaglio alla presentazione del rapporto sul capitalismo. Ovvero: guai a illudersi che le aziende possano restare quelle di prima, senza mettere in discussione il tabù dei licenziamenti; guai a far conto sulla moratoria dei debiti, ovvero a illudersi che la mano pubblica possa elargire quattrini a pioggia. Anzi, i debiti prima o poi vanno pagati. Tanto più quando il debitore, come l’Italia, dovrà farne di nuovi per chissà quanto tempo. Un tallone d’Achille che giovedì, giorno di frenata delle Borse, si è ripresentato con grande evidenza. 



I soldi dell’Europa, insomma, non sono una manna piovuta dal cielo ma impongono un obbligo ben preciso: o servono per raddrizzare le finanze del Paese, a partire dal tessuto delle imprese industriali e dei servizi, oppure, tempo 12-18 mesi, l’emergenza tornerà a mordere. La partita si gioca lì, nel campo delle imprese che devono produrre ricchezza. Il debito pubblico viene dopo come una conseguenza virtuosa o viziosa a seconda dei risultati.



Un segnale nella giusta direzione è arrivato dall’accordo tra Cdp e Intesa San Paolo: la Cassa sottoscriverà un’obbligazione della durata di 7 anni emessa da Intesa Sanpaolo del valore nominale di 1 miliardo di euro, che sarà integralmente impiegato dalla Banca “per erogare nuovi finanziamenti a MidCap e PMI italiane finalizzati ad investimenti sul territorio nazionale”. I capitali (massimo 25 milioni per non meno di 24 mesi) consentiranno un miglior accesso al credito “riducendo il costo del finanziamento e contribuendo a ottenere nuova liquidità al fine di superare la fase ancora critica post pandemia e/o finanziare nuovi investimenti per la crescita e il recupero della competitività”.



Non è una novità assoluta, forse, ma un buon esempio della ricetta Draghi: dare alle aziende i mezzi perché adottino le misure necessarie per investire, crescere o, com’è opportuno, rafforzare il patrimonio in vista di un’operazione di aggregazione o di acquisizione di concorrenti. La pandemia, tra l’altro, offre una buona via d’uscita a chi vuol vendere senza per questo confessare di trovarsi di fronte a una soluzione obbligata. Ma, soprattutto, è un incentivo a rompere il salvadanaio senza più confidare su mamma banca o, per i più grandi, la protezione di papà Stato. 

È assurdo che un Paese che dispone di 1.800 miliardi di liquidità nei conti correnti più i capitali collocati nel gestito non trovi i fondi per fornire alle sue imprese il capitale necessario a investire e crescere. In particolare adesso, quando il clima finanziario è positivo sul capitale di rischio. Un clima da luna di miele che, ahimè, non durerà per sempre: una volta esauriti i vari sostegni e sfruttato le varie moratorie, si tornerà a fare i conti con un atteggiamento ben diverso e lo scivolone della Borsa di giovedì dimostra che, quando cambiano gli umori, la piazza più fragile ed esposta agli attacchi speculativi resta l’Italia.

Di qui una facile previsione: abbiamo a disposizione 12-18 mesi per rafforzare le difese delle aziende grandi e piccole, ovvero per crearne di nuove più robuste, sia sul piano finanziario che su quello della governance. Il messaggio dunque è: cari industriali, meno barche o Porsche, ma anche meno diversificazione e speculazione immobiliare o in Borsa (piuttosto che in Bitcoin). E basta, cari politici, baloccarsi con il sogno della rinascita dell’Iri o di un Fondo Sovrano in cui esercitare il vostro potere. Vi tocca una missione più complicata, ma che non si presta alla narrazione di un tweet o al supporto dei Ferragnez: la lotta per il rispetto delle regole e gli argini alla burocrazia. 

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