Il 2019 non si è chiuso bene per l’industria italiana, visto che l’indice Pmi manifatturiero di dicembre è sceso a 46,2 punti dai 47,6 di novembre. E le prospettive per la nostra economia non sono molto positive, come ci conferma Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma: «È difficile fare previsioni, data l’estrema volatilità dello scenario mondiale. Se il 2019 verrà probabilmente ricordato come l’anno della Brexit, il 2020 sarà quello delle elezioni americane. E se ci si pensa bene, la Brexit e il voto negli Usa hanno un elemento in comune».



Quale?

Una grande incertezza sull’esito finale, passata la quale ci sarà grande volatilità. Se a correre per i Democratici fosse la Warren e dovesse vincere, mi aspetto una reazione negativa dei mercati, perché probabilmente si farà un passo indietro sulle riforme fiscali, mentre una conferma di Trump porterebbe a un rimbalzo positivo. Certo però a determinare gli effetti più importanti potrebbe essere un altro tema, che ci è appena stato ricordato da quanto accaduto in Iraq: la questione della sicurezza mondiale.



Questo tema potrebbe avere conseguenze sull’economia?

Potrebbe avere incidenza immensa sulle questioni economiche. Già vediamo una tendenza protezionistica, che potrebbe consolidarsi e diventare un protezionismo di sicurezza, capace di portare molti Paesi a “rinazionalizzare” o riprendere in mano politicamente una serie di industrie strategiche che vanno dall’informatica alle telecomunicazioni. Si tratta di un protezionismo potente, perché la politica può far fare un passo indietro all’economia visto lo scenario di potenziale guerra reale più che commerciale. Questo finirebbe per giocare un ruolo anche in Europa, dove paradossalmente potrebbe portare a un afflato, se guidato da una sapiente leadership che sembra purtroppo mancare, di attenzione ai temi comuni europei.



Ce n’è qualcuno che potrebbe ricevere più attenzione?

Penso che la difesa comune europea potrebbe tornare di moda. Ora parliamo tanto di investimenti verdi, ma in un momento di scarsità di risorse si potrebbe anche decidere di puntare su protezione e sicurezza. Questo potrebbe essere paradossalmente positivo per l’unità di un continente che sembra invece mancare totalmente. E che probabilmente vedremo mancare anche nel 2020. Se ci si aspetta un qualche apporto della Germania alla causa comune dubito che ci sarà. È vero che stiamo vedendo una crescita dei salari tedeschi, ma in un momento economico non facile per il Paese, i cittadini potrebbero anche aumentare i risparmi e non i consumi. Più importanti sarebbero gli investimenti.

In questo quadro come vede la situazione dell’Italia?

Le proiezioni dell’Ocse parlano di un dimezzamento del tasso di crescita dell’export, uno dei fattori che ci ha permesso in parte di recuperare il gap nei confronti degli altri Paesi che resta immenso. I consumi continuano a essere dominati dal pessimismo, gli investimenti privati sono stimati in frenata dal +2,9% al +0,8%. Questo non ci fa ben sperare, tenuto anche conto che l’Ocse, dopo tante balle che ci sono state dette sulla manovra, dice che il rapporto tra entrate fiscali e Pil salirà, così come quello tra debito pubblico e Pil, senza dimenticare le clausole di salvaguardia da 47,2 miliardi per i prossimi due anni. Direi che ci troviamo di fronte a uno scenario veramente disastroso per il nostro Paese, che rafforzerà, a meno di mutamenti di intelligenza di leadership europea e italiana, i movimenti sovranisti.

Come si può far fronte a questa situazione?

Non chiedendo solidarietà all’Europa, perché non ci può essere al momento tra Paesi che si ritengono estremamente diversi tra loro, ma un’autonomia ragionata sulle politiche fiscale. Si tratta di prendersi oneri e onori, rischi e responsabilità, potendo però fare una politica fiscale espansiva, non restrittiva come quella dell’ultima manovra. L’Italia dovrebbe tenere ferma la barra del deficit al 3% del Pil fino a quando l’economia non uscirà dalle secche di una crisi che dura da più di dieci anni, esplicitando due condizioni.

Quali?

La prima è quella della golden rule, per cui l’aumento di deficit non deve essere destinato a provvedimenti come reddito di cittadinanza e Quota 100, ma a investimenti pubblici. La seconda è un avanzo corrente in pareggio garantito da una seria spending review mai fatta prima in Italia. Chiaramente la probabilità che questo avvenga è bassissima, ma in un contesto che è più rischioso di quello dell’anno scorso è d’obbligo per la politica europea e italiana battere un colpo e dare un orizzonte di crescita. Un po’ di speranza può arrivarci da quello che ritengo l’evento più importante di responsabilità politica italiana sull’economia del 2019: le dimissioni di Fioramonti.

Perché ritiene sia questo l’evento più importante?

Quando il Governo ha scelto di mettere in atto una politica economica restrittiva, non riuscendo a dare un simbolico miliardo agli investimenti pubblici più importanti, quelli in capitale umano, il ministro ha avuto il coraggio di fare un passo di lato. Un gesto che ci ha ricordato che non bisogna accettare tutto supinamente, che un’alternativa è possibile. Avremo bisogno di gesti di questo tipo, che mettano al centro i giovani, il futuro e l’attenzione alle persone più in difficoltà, da parte della politica, ma rovesciati: non per una rinuncia, ma per un’autonomia e una responsabilità.

Dunque questo tema dell’autonomia dovrebbe essere trattato subito dalla maggioranza di Governo, senza aspettare fine mese dopo le regionali o persino il Def.

Assolutamente sì. Mi sembra che ci siano una serie di don Abbondio nella politica italiana. Il gesto dell’ex ministro dell’Istruzione, più che illuminare lui, ha messo chiaramente in visione l’ombra che domina su tutti gli altri. È inaccettabile rimanere silenti di fronte al dramma che sta vivendo questo Paese, senza capire che gli investimenti pubblici non sono soltanto uno stimolo alla domanda, ma anche all’offerta, perché aumentano produttività e competitività.

Professore, l’Europa non ci ha mai lasciato ampi margini sul bilancio. Può bastare presentare una spending review per vedersi consentita quell’autonomia sulla politica fiscale di cui ha parlato?

Sì. Anche perché quando abbiamo mai portato in Europa una vera spending review? È chiaro che va presentata prima della richiesta del deficit/Pil al 3%, ma è altrettanto chiaro che le due cose devono andare insieme: non si può fare solo la spending review senza gli investimenti pubblici.

(Lorenzo Torrisi)