Sono due le killer application a disposizione delle imprese italiane (e naturalmente non solo) che vogliano recuperare al più presto le performance tenute prima della pandemia: gli investimenti verdi e quelli digitali. Secondo uno studio dell’Istituto Tagliacarne, infatti, soltanto accettando questa doppia sfida le piccole realtà produttive che affollano il Paese potranno sperare di avvicinare la prospettiva delle grandi che nel 70% dei casi confidano di tornare in forma già alla fine del 2022.



Ci sarebbe anche la propensione all’export, certo, a determinare una capacità di reazione più pronta. Ma il presupposto resta la migliore organizzazione che le transizioni digitale e verde sono in grado di assicurare a chi intende superare i confini nazionali. Anche nel campo delle imprese familiari, che rappresentano il 75% delle aziende manifatturiere, la doppia carica fortemente suggerita dall’Europa è in grado di fornire la spinta sufficiente a risalire la china.



Peccato che un rapporto della Fondazione Cotec per l’Innovazione e della Bei informa che solo due imprese su dieci investano nella formazione Ict dei dipendenti con il risultato di rallentare il processo di crescita anche in presenza di nuove e più performanti tecnologie. Le macchine, le meno e le più sofisticate, sono e saranno ancora manovrate dalle persone che hanno bisogno di acquisire abilità e conoscenze all’altezza dei tempi secondo le attese riflesse nel Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Verde e digitale conducono a un più rapido sviluppo dimensionale dei singoli attori del sistema produttivo – spiega ancora il Tagliacarne – e incidono positivamente anche nella governance aziendale promuovendo in alcuni casi i passaggi generazionali. La capacità di provocare un’accelerazione di tutti i processi migliorativi riguarda il mondo dell’industria come quello dei servizi e naturalmente attraversa i territori dando un forte impulso a quelle che vengono definite “le competenze del futuro”.



Resta, anzi si accentua, la distanza tra Nord e Sud dove l’estrema frammentazione delle unità produttive, la loro piccola e piccolissima taglia, la scarsa propensione all’export e la bassa incidenza delle applicazioni verdi e digitali esasperano il tasso di disoccupazione – soprattutto giovanile e femminile – formando una vasta area di disagio. Tutto questo senza contare il pericolo che si annida dentro le crisi d’impresa congelate dai provvedimenti tampone del Governo e che presto minacciano di esplodere.

Sul fronte meridionale, verso cui dovrebbe essere diretto il 40% delle risorse del Recovery Plan, incombono due ulteriori insidie che ne rallentano il cammino: la scarsa capacità amministrativa che si combina a una burocrazia antiquata e la percezione di una criminalità che limita la libertà delle forze del mercato condizionando il corretto svolgimento dell’attività economica. Si parla di percezione perché basta questa – a prescindere dalla reale incidenza del fenomeno – a scoraggiare l’intrapresa e alterare la qualità dei rapporti.

Questo quadro suggerisce di stare in allerta. Anche perché se il Mezzogiorno arretra nei confronti del Settentrione è l’intero Paese a scivolare sempre più indietro nel rapporto con i partner europei segnando un Pil pro capite del 26% inferiore al gruppo di testa e una produttività più bassa del 17%. Se questi sono i numeri con i quali fare i conti ci vorranno davvero tutto l’impegno e l’ingegno possibili perché s’inverta la tendenza di un sistema che esibisce le solite lodevoli eccezioni dentro un contesto che resta molto pesante.

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