Nel giorno in cui il Governo ha varato il decreto cura Italia, l’Eurogruppo, riunito in videoconferenza, ha annunciato “misure di bilancio coordinate pari in media all’1% del Prodotto interno lordo” e ribadito la possibilità di ricorrere a tutta la flessibilità di bilancio garantita dalle regole europee. Non è stata invece presa alcuna decisione sulla possibilità di attivare la cosiddetta “general escape clause” che permetterebbe ai Paesi di deviare dall’aggiustamento di bilancio concordato con Bruxelles. Ieri, invece, dalla Commissione è arrivato il via libera a schemi di aiuti di Stato fino a 500.000 euro per le aziende, in particolare le compagnie aeree fortemente penalizzate dalla crisi. Si tratta di cifre adeguate? «A me sembra che ci sia una comprensione, in Europa e nel resto del mondo, dell’esigenza di mettere in campo tutti gli strumenti di politica economica necessari. Trovo sbagliato parlare di piccolezza della reazione europea. Se le cifre di cui si parla sono basse è perché il bilancio europeo è piccolo», ci dice Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma.



Ritiene quindi adeguato anche quanto si sta facendo in Italia?

C’è una mancanza di attenzione allo shock che non è indotto dal virus stesso, ma dal pessimismo che si sta generando in tutto il Paese. Per questo occorrono politiche di domanda esplicite come cantieri e investimenti pubblici che hanno anche una capacità di risollevare l’occupazione. Per il momento abbiamo quindi misure di emergenza con trasferimenti a imprese e cittadini per sostenere i redditi ed evitare che alcune attività economiche chiudano per sempre. È una mossa che va assecondata con una manovra sul fronte della domanda diretta alle attività produttive via investimenti pubblici. Detto questo c’è un punto importante che va affrontato.



Quale?

Bisogna chiedersi come quel che sta accadendo impatterà sul futuro delle istituzioni europee e come dobbiamo ridisegnarle e a partire da ora. Per il momento, presi come siamo dal contingente, non ci si sta pensando, ma bisognerà farlo. Il virus se ne andrà, avrà lasciato drammaticamente le sue vittime e ci sarà da ricostruire l’economia di una serie di Paesi. Ci sarà un pessimismo drammatico prevalente che rappresenterà una cicatrice che resterà a lungo. L’intervento del pubblico nell’economia dev’essere ripensato, come fece Roosevelt a valle della crisi del ’29. Bisogna quindi assolutamente far diventare normalità l’eccezionalità europea in questo momento sui trattati della politica fiscale.



Professore, lei sembra parlare come se già ci fosse stato il via libera all’attivazione della cosiddetta escape clause. Non è però così e l’Italia stessa dovrà rientrare dalla deviazione che sta facendo dai parametri concordati con Bruxelles.

Intanto lo spazio per 25 miliardi c’è stato dato e non è poco. Pensando al passato ci sarebbe potuta essere una reazione molto più grigia, burocratica. È chiaro che si può fare di più e a mio avviso ciò dovrebbe passare da un ripensamento completo, almeno per un decennio, di che cosa sia la politica fiscale in un momento in cui il mondo intero è stato piegato da uno shock che veramente non era mai capitato con questa portata nella storia delle economie capitalistiche. Non ho il minimo dubbio che continueranno ad affluire nuovi fondi e che l’Italia potrà sforare fino al 4%, al 5% del deficit/Pil. Non ho dubbi che piano piano questo aiuto aumenterà, ma quello che temo di più è che non ci sia la capacità di capire cosa succederà dopo uno shock come quello che stiamo subendo.

Occorre dunque cominciare ad anticipare le misure per il post-emergenza…

Credo che questo sia un momento chiave, con sei mesi di anticipo, per lanciare tutti i messaggi possibili e immaginabili sul fatto che da ora in poi il settore pubblico sarà accanto a quello privato per i prossimi dieci anni, senza lacci e lacciuoli: un gigantesco piano Marshall per l’Europa. Non dobbiamo dimenticare che la generazione del ’29 ha continuato a risparmiare tutta la vita temendo il ritorno di una crisi. Occorre dunque un chiaro messaggio capace di influenzare le aspettative. Ci sarà bisogno che la gente si svegli ogni giorno sapendo che è protetta nelle sue attività economiche dalla presenza pervasiva dello Stato.

In che senso pervasiva?

Pervasiva non nel senso delle regole burocratiche, ma di attenzione alle esigenze delle imprese e delle persone stimolando esso stesso la domanda. Ciò va fatto sin da ora eliminando quel che lo ostacola, cioè i Trattati europei che non sono più all’altezza di un “mondo post-virus”. Il “mondo virus” lo stiamo secondo me affrontando ai limiti delle nostre capacità.

C’è chi dice che la Banca centrale dovrebbe fare di più.

Tagliare i tassi di interesse a cosa serve se non c’è domanda di credito alle banche? E ridurre lo spread cosa può servire di fronte a una crisi di queste dimensioni dove il mondo è cambiato per sempre? Bisogna sbloccare la situazione come può fare soltanto il settore pubblico sollecitando l’attività produttiva e garantendo a tutti che in momenti di difficoltà lo Stato sarà lì accanto. Questo vuol dire per l’Europa, ancor più che per gli Stati Uniti, capire che il pubblico nell’economia, nei momenti di crisi, è fondamentale. Si diceva che i Trattati andavano rivisti per i momenti di crisi e questo è un momento di crisi che durerà tantissimo. Abbiamo quindi bisogno di demolire questi Trattati per i prossimi dieci anni, così che a nessun operatore economico venga in mente che l’Italia nei prossimi 5-6 anni non verrà aiutata perché non converge verso il bilancio in pareggio. È adesso il momento di ripensare con lungimiranza al prossimo decennio. Bisogna quindi fare una moratoria sui Trattati non per sei mesi, ma per un decennio, perché gli operatori economici ragionano per decenni.

L’Italia non potrebbe imitare la mossa della Germania che con la Kfw, l’equivalente della nostra Cdp, mette sul piatto più di 500 miliardi euro per sostenere l’economia?

Non so contabilmente parlando in che modo sarebbe possibile, ma non è una strada da escludere a priori. Il problema chiave è ragionare tutti insieme a livello europeo sul giorno in cui il virus non ci sarà più. Perché se ricominciassimo con il tran-tran delle regole, delle convergenze, pensando che il mondo non sia cambiato per sempre faremmo un errore gravissimo: le regole che abbiamo valevano per un mondo che non esiste più.

Bisogna allora sperare che la nostra classe politica, come quella degli altri Paesi europei, sia all’altezza della situazione per riscrivere le regole senza commettere gli errori del passato.

Ci vuole ovviamente un grado di leadership straordinario, ma i tempi sono straordinari.

(Lorenzo Torrisi)

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