Si sta svolgendo a Milano, nei padiglioni di Rho-Fiera, la grande manifestazione dell’Artigiano in Fiera, aperta fino all’8 dicembre. Un settore che continua a trainare l’impresa italiana anche in tempo di crisi: sono artigiane oltre un milione e mezzo di imprese nel 2018 con 3 milioni circa di occupati, secondo i numeri forniti da Confartigianato. E in base ai dati Eurostat 2017, l’Italia è seconda in Europa per numero complessivo di addetti come artigiani, alle spalle della Germania con 5,1 milioni, ma davanti a Regno Unito, Polonia, Francia e Spagna. Anche per numero di addetti artigiani nel manifatturiero l’Italia, con i suoi 1,45 milioni di addetti, si piazza dietro solo alla Germania, che ne ha 2,3 milioni, ma davanti a Polonia e Spagna. Uno “zoccolo duro”, quello delle micro-imprese, che dà forza alla nostra economia e al made in Italy nel mondo. Un patrimonio che va aiutato. Come? “Se si adottano misure che hanno una logica – risponde Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison – come il pacchetto messo in campo nel triennio 2015-2017, da Industria 4.0 al superammortamento, dal credito d’imposta sulla R&S all’iperammortamento, un mondo che ha logica come quello delle imprese, anche le più piccole, reagisce in modo altrettanto logico: innovando, internazionalizzando e creando lavoro”.



L’Italia è tra i Paesi europei con la più alta percentuale di micro-imprese e imprese artigiane sul totale delle attività industriali. Lo si vede bene dai numeri di Artigiano in Fiera, che riscuote un grande successo di pubblico. Su questo tessuto imprenditoriale che segni ha lasciato la crisi iniziata nel 2008?

In Italia, guardando la serie storica 2008-2014 a livello di attività economiche totali, siamo scesi dai 3,8 milioni di addetti artigiani di tutti i settori a 3milioni e 70mila: abbiamo perso circa 700mila addetti nell’artigianato, calati soprattutto nel comparto delle costruzioni (300mila in meno), mentre per manifattura e commercio il taglio è stato di circa 100mila addetti ciascuno e i restanti 200mila in meno si sono distribuiti su tutto l’ampio ventaglio delle diverse attività. Da quel momento, però, il livello complessivo si è stabilizzato, non c’è stata più un’emorragia di occupati, anche se, mentre nel resto del Paese l’occupazione tornava ad aumentare, non si è più riusciti a recuperare la quota pre-crisi. C’è stata quindi una specie di selezione drammatica delle attività artigiane: sono rimaste in piedi quelle che, anche nonostante le piccole dimensioni, sono state in grado di competere ancora nel nuovo contesto della ripresa successiva alla crisi. Stiamo comunque parlando di numeri elevatissimi, di uno zoccolo duro dell’economia italiana.



Quale contributo offrono le micro-imprese artigiane all’export?

Considerando i numeri in base alla dimensione d’impresa, e l’artigianato coincide in gran parte con l’universo delle micro-imprese, quelle cioè con meno di 10 addetti, le imprese manifatturiere esportatrici nel 2017, sempre secondo i dati Istat/Eurostat, erano 44.854 e hanno esportato per circa 7,8 miliardi di euro.

Non è una cifra di poco conto, non crede?

Equivale all’export totale della Croazia… Chiaro, 7,8 miliardi è una cifra ovviamente più piccola di quelle realizzate dalle piccole, medie e grandi imprese, ma non sono certo da buttare. Teniamo poi conto che molte micro imprese, pur senza esportare direttamente, in molti casi lavorano nell’indotto delle imprese un po’ più grandi, che a loro volta esportano molto. Quindi sono spesso inserite in realtà distrettuali o in filiere molto dinamiche sul fronte dell’internazionalizzazione.



Quali sono i settori più dinamici?

I classici motori del made in Italy: meccanica (1,5 miliardi di export), abbigliamento (900 milioni), lavorazione metalli (700 milioni), pelli-calzature (600 milioni), agroalimentare (500 milioni), mobili e tessile (400 milioni ciascuno). Insieme fanno quasi i due terzi dei 7,8 miliardi totali.

Tutti questi numeri che cosa ci dicono?

In Italia soffriamo ormai da tempo di quella che potremmo chiamare una sindrome da micro impresa. Siamo convinti che i nostri indicatori vanno male perché abbiamo troppe imprese troppo piccole. Scontato il fatto che abbiamo poche grandi imprese, dobbiamo vivere di quello che abbiamo, che è tantissimo, perché non solo siamo la seconda potenza esportatrice d’Europa, ma con 100 miliardi di dollari siamo anche il quinto surplus commerciale manifatturiero del mondo dietro Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud. E le micro imprese partecipano direttamente o indirettamente al nostro export con volumi non trascurabili, tanto che i ministri dell’industria tedesco o francese verrebbero di corsa in Italia a prendersi queste imprese anche gratis, mentre per molti economisti nostrani sono viste come una palla al piede. Ma oggi in Europa il problema non è certo la nostra micro impresa, piuttosto è la macro impresa tedesca del settore auto. Le nostre micro imprese, anche artigiane, esportano, danno lavoro e fanno innovazione.

A proposito di innovazione, è un asset su cui devono puntare con maggior forza?

La risposta è che l’hanno già giocata la sfida dell’innovazione. Difficile fare una fotografia omogenea perché parliamo di migliaia e migliaia di micro-imprese, dove c’è dentro di tutto. Però, per esempio, secondo Confindustria nel 2017 gli investimenti in macchinari 4.0 ammontavano a 10 miliardi di euro e le imprese con meno di 10 dipendenti rappresentavano il 38% di quelle che avevano beneficiato dell’iperammortamento, con 700 milioni di investimenti agevolati 4.0, il 7% del totale. Che non sono certo poca roba. Anzi, si può stimare che una cifra più o meno analoga sia stata investita in torni, macchinari tradizionali e macchine utensili. Attenzione: le micro imprese sono andate ad acquistare questi macchinari da altre imprese italiane, non cinesi, quindi con un notevole effetto volàno sulla crescita complessiva dell’industria italiana, che negli ultimi quattro anni, a fronte di un +4% circa del Pil, è aumentata del 12%.

E sul fronte della Ricerca e sviluppo?

Grazie all’estensione del credito d’imposta alle imprese di minori dimensioni e al contemporaneo aumento dei tetti di spesa, nel 2015-2017, il triennio di politiche industriali più efficace degli ultimi trent’anni, è avvenuto qualcosa di straordinario, con il più robusto aumento degli investimenti in R&S mai registrato dal 2002-2004: addirittura +7,2% in media all’anno.

Come si può sostenere la competitività delle micro-imprese nell’arena della globalizzazione?

Sempre nel triennio 2015-2017 il valore aggiunto per occupato a valori costanti nella manifattura italiana è cresciuto di più che nei maggiori Paesi europei. Ed è la prima volta che succede dall’introduzione dell’euro.

A chi va il merito?

A Industria 4.0, superammortamento, iperammortamento, credito d’imposta sulla ricerca, rifinanziamento Legge Sabatini, patent box, eliminazione tassa sugli imbullonati. Queste misure sono state fondamentali nel recente passato, visto che nel periodo 2015-2017, quando hanno preso più o meno corpo, l’Italia ha realizzato una crescita media annua, in termini reali, degli investimenti in macchinari e veicoli pari al 6,3% contro il +5% dell’eurozona. Ecco perché le imprese, anche le micro, uscite dalla crisi sono oggi più forti, temprate a qualunque difficoltà. È un pacchetto di misure che andrebbe riproposto.

Altri interventi utili?

La semplificazione. Le problematiche burocratiche e amministrative pesano enormemente sulle micro imprese. In Italia ci sono un sacco di imprese pubbliche e parapubbliche che “rallentano” le attività imprenditoriali, una pletora che va estirpata e razionalizzata. Le imprese dovrebbero essere messe nelle condizioni di lavorare seriamente, rispettando le regole, ma senza avere difficoltà tali, sul piano dell’ottemperanza fiscale e normativa, che costringa una micro-impresa a dedicarvi una mole eccessiva di tempo e risorse. Molti piccoli, forse, rimangono tali e non crescono dimensionalmente perché passano troppo tempo rimbalzati da un ufficio all’altro.

(Marco Biscella)