Ieri al Meeting di Rimini si è parlato di sviluppo e disuguaglianze, purtroppo aumentate a seguito della pandemia di Covid. Come spiega Stefano Zamagni, Presidente dell’Accademia Pontificia per le scienze sociali, «che l’evento pandemico avrebbe accresciuto le diseguaglianze sia tra gruppi sociali, sia tra territori era qualcosa di non prevedibile. Perché, come lo storico austriaco Walter Scheidel ha documentato nel suo monumentale volume La grande livellatrice, nei secoli passati le epidemie hanno avuto l’effetto di ridurre le diseguaglianze sociali. Occorre dunque essere consapevoli di una tale “novità”. Che fare, allora, se si vuole prendere sul serio il progetto politico-economico della prosperità inclusiva?».



Una risposta potrebbe essere aumentare le politiche redistributive e assistenziali…

Bisogna decidersi una buona volta a porre in atto politiche pre-distributive e non continuare con le sole politiche redistributive come si è fatto finora. Trasferimenti di reddito; tassazione progressiva; interventi assistenziali di vario tipo sono altrettanti esempi di interventi in chiave redistributiva che vengono posti in essere dopo che le più rilevanti decisioni in materia di occupazione, investimenti, innovazioni sono state prese. Come l’esperienza insegna, i risultati che ne conseguono sono sempre troppo modesti, perché è come trasportare l’acqua con un secchio bucato: all’arrivo, buona parte della stessa sarà scomparsa. Al contrario, le politiche pre-distributive mirano a elevare le dotazioni delle persone prima che queste entrino nel processo produttivo. Educazione (e non solo istruzione), finanza, capitale sociale, famiglia, organizzazione del lavoro: è su questi fattori che occorre intervenire per accrescere le capacitazioni (le capabilities nel senso di A. Sen) degli individui e quindi per ridurre le diseguaglianze economiche.



La pandemia ha mostrato la forza del volontariato e del Terzo settore. Che ruolo può avere quest’ultimo nella “ripartenza” post-Covid?

La strategia per la rinascita post-Covid non potrà avere successo fin tanto che ci si ostina a muoversi entro il modello di ordine sociale basato su Stato e Mercato (il cosiddetto pendolo lib-lab). Occorre piuttosto affrettare i tempi per implementare il modello Stato-Mercato-Comunità, la cui cifra è quella di riconoscere ai corpi intermedi della società – come li chiama la nostra Carta Costituzionale – un ruolo non meramente complementare a quel che fanno gli altri due pilastri, né una funzione semplicemente emergenziale: si ricorre e si invoca la Comunità solo nelle emergenze. In sostanza, si tratta di dare ali robuste al principio di sussidiarietà, un principio che storicamente nasce e si afferma nel nostro Paese a partire dal XIII secolo e che poi esce di scena – per ben note ragioni – già a far tempo dal XVIII secolo. Tornare a scoprire le origini e gli sviluppi iniziali della sussidiarietà è, oggi, un’operazione culturale della massima rilevanza.



In queste settimane sono arrivate le prime risorse del Recovery fund. C’è adeguato spazio per il Terzo settore nel Pnrr?

Mi sarei aspettato un più ampio e qualificato spazio per il Terzo Settore entro il Pnrr. Un solo esempio: in tutto il monumentale documento, il volontariato è menzionato solamente tre volte, quasi en passant. In verità, il limite serio dell’impianto concettuale del Piano è che si continua a tenere tra loro disgiunte la dimensione dell’economico e quella del sociale. Si continua, cioè, a vedere l’economico come lo spazio occupato dalla forma tradizionale di impresa (pubblica o privata che sia) e il sociale come lo spazio riempito dagli Enti di Terzo Settore (cooperative sociali, imprese sociali, certe tipologie di Fondazioni). Ebbene, tale concettualizzazione è priva di solido fondamento teorico-scientifico, e soprattutto è gravida di conseguenze negative sul fronte della sistemazione giuridica.

Come procede, a suo modo di vedere, il cammino della riforma del Terzo settore?

La Riforma del Terzo Settore, quale emerge dal D. Lgs. del luglio 2017, è nel complesso una buona riforma. Oggi l’Italia possiede il “Codice del Terzo Settore”, dei cui punti di forza si è parlato a lungo negli ultimi quattro anni. Qual è allora la questione che occorre sollevare? Che dopo quattro anni, la Riforma non ha ancora trovato il modo di esplicare tutti i suoi effetti.

Per quale ragione?

La ragione principale è che un grave vulnus del nostro assetto istituzionale è che le nostre leggi quasi mai sono auto-applicative, capaci cioè di produrre gli effetti da esse attesi dopo la loro promulgazione. Occorre attendere i “decreti attuativi” di spettanza del Governo e non del Parlamento. Non ci si deve allora sorprendere se i contrasti tra le forze politiche e la macchina burocratica ritardano, oltre ogni ragionevole considerazione, l’emanazione dei decreti attuativi. Accade così che siamo ancora in attesa del RUNTS (Registro Unico Nazionale del Terzo Settore), dei provvedimenti per rendere accessibili i nuovi strumenti di finanza sociale, e di altro ancora. Occorre riconoscere che la sentenza 131 del 26 giugno 2020 della Corte Costituzionale – una sentenza che non esito a definire di portata “epocale” – sta dando un impulso decisivo al fine di colmare questa lacuna. Penso, in particolare, alla implementazione del modello di amministrazione condivisa, basato sulla co-programmazione e soprattutto sulla co-progettazione.

Sta crescendo in Italia il numero di Società Benefit. Cosa ne pensa? 

La crescita del numero di Società Benefit – forma d’impresa introdotta nel nostro Paese con legge apposita del dicembre 2015, sulla falsariga delle B-Corp (Benefit Corporation) americane – è una novità che va salutata con simpatia e con grande apertura mentale Perché? La risposta è che l’economia di mercato va pensata come un lago nel quale nuotano tante specie diverse di pesci. Se la biodiversità lacustre viene meno, il lago “scompare”. Così è del mercato. L’idea che in esso debbano operare solamente imprese di tipo capitalistico è ingenua e non fa i conti con la storia economica. La vera competizione, infatti, non è solamente quella tra imprese dello stesso tipo, ma anche quella tra tipi diversi di impresa. Quando si riuscirà a comprendere la natura propria del principio competitivo, saremo pronti a cambiare l’obsoleto art. 2249 del nostro Codice Civile. Prima lo si farà, meglio sarà per il bene comune.

(Lorenzo Torrisi)

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