Negli sperduti territori nord-orientali della Russia si sta giocando una partita fondamentale per la salute del pianeta. Abbiamo ancora in mente le foto di luglio, di “bagnanti” a caccia di refrigerio sui lembi del ghiaccio Buluus ai margini di Yakutsk, la cittadina più grande al mondo che si erge sul permafrost. La colonnina di mercurio di un’area in cui le temperature medie si aggirano intorno a meno 10 gradi scendendo fino a meno 60 gradi, aveva superato i 30 gradi.



È un’immagine efficace come indicatore del cambiamento climatico ma che non spiega tutte le implicazioni dell’assottigliarsi del permafrost che nei suoi strati intrappola minerali, vegetali e carcasse di animali sciolti permanentemente in esso. Un fenomeno geologico che interessa Alaska, Canada, Groenlandia e soprattutto la Russia. È nella regione della Yakutia che si concentra il permafrost continuo più esteso con profondità che superano il chilometro e mezzo. Se fosse uno stato autonomo, la Yakutia sarebbe l’ottavo paese al mondo per superficie. C’è comunque vita sopra il permafrost: alcune aree assorbono abbastanza calore in estate da scongelare temporaneamente la crosta superiore del suolo, chiamato strato attivo, consentendo alle piante di crescere e agli animali di trovare cibo. Sotto, il terreno rimane perennemente ghiacciato, conquistandosi il soprannome di Regno dell’Inverno.



Ma se fino a qualche anno fa lo strato attivo misurava al massimo un metro, ora siamo nell’ordine di tre volte tanto. Il riscaldamento globale progredisce nella zona artica a ritmi due volte e mezzo superiori a quelli del resto del mondo. Gli scienziati russi che studiano il problema sono molto preoccupati. “Abbiamo passato la soglia di stabilità: negli ultimi due anni infatti il permafrost ha iniziato a sciogliersi ovunque nella nostra regione”, spiega Serghei Zimov, uno di massimi esperti di geocriologia e condirettore della stazione di ricerca della Yakutia. “Se il trend continua di questo passo, nei prossimi 10 anni il permafrost rischia di sparire del tutto”. Il disgelo del permafrost non provoca solo l’aumento del livello dei mari, ma il materiale organico racchiuso in questi terreni marcisce e vengono rilasciate grosse quantità di anidride carbonica e metano nell’atmosfera. Si stima che la quantità di carbonio in questi depositi congelati sia circa il doppio di quella attualmente presente nell’atmosfera. Di conseguenza, il permafrost e le relative piscine di carbonio vengono paragonati a “giganti dormienti” del nostro sistema climatico. Se si svegliassero, le emissioni di gas serra che ne derivano farebbero aumentare le temperature globali ancora più del previsto, provocando su scala globale cambiamenti climatici ancora maggiori. Il processo è conosciuto come feedback positivo.



L’accoppiata neve e aumento delle precipitazioni durante la stagione estiva è perniciosa: sul terreno umido e paludoso si forma una patina isolante che favorisce lo scioglimento del permafrost; mentre l’acqua imprigionata nei blocchi di ghiaccio a maggio provoca disastrose inondazioni. Il paesaggio si rivela costellato di dossi e avvallamenti chiamati thermokarst, che sprofondando ulteriormente si trasformano in acquitrini rendendo ancora più difficile l’esistenza dei 900mila abitanti sparsi sugli oltre 3 milioni di chilometri quadrati diventati, tra gli altri, il paradiso delle zanzare. Impossibile coltivare foraggio per gli animali, gli allevatori hanno ripiegato su cavalli meno esigenti delle vacche nell’alimentazione ma la cui carne è meno richiesta e la produzione di latte è precipitata. Un migliaio di case hanno dovuto essere abbattute perché il terreno delle fondamenta ha ceduto.

In quella regione dove dalla metà del XVIII secolo venivano esiliati i dissidenti del potere imperiale con un viaggio che impiegava un anno da San Pietroburgo (oggi una delle uniche due strade è stata costruita dai prigionieri dei gulag sovietici), concentra l’attenzione non solo di climatologi ma anche di un team di genetisti di Harvard. Sono intenzionati a riportare alla vita l’ecosistema della steppa dei mammut, clonando cellule di elefanti con il Dna sintetico dei grandi erbivori vissuti all’epoca del Pleistocene. Non sono mossi dalla frivola intenzione di creare un parco a tema Era Glaciale; gli scienziati sostengono che reintrodurre mammut negli ambienti della tundra aiuterebbe a fermare il rilascio di gas serra dal suolo. Secondo la loro tesi il continuo calpestio di muschi e arbusti e lo sradicamento degli alberi compiuto da questi grandi mammiferi manteneva la steppa produttiva di piante ed erba e libera da alberi. Poiché l’erba assorbe meno luce solare rispetto agli alberi, il terreno assorbirebbe meno calore e, a sua volta, manterrebbe più a lungo le piscine di carbonio e i loro gas serra sequestrati nel ghiaccio. E d’inverno i branchi di mastodonti dal lungo pelo calpesterebbero la copertura nevosa, e le impedirebbero di comportarsi come isolante per il terreno, permettendo al permafrost di percepire gli effetti dell’inverno artico. Anche in questo modo, in teoria, il terreno rimarrebbe più freddo più a lungo.

Proprio Serghei Zimov nel lontano 1996 è stato uno dei promotori del Parco del Pleistocene dove si sperimenta se il contributo di un centinaio tra bisonti, yak, alci, riesce a modificare e fertilizzare l’attuale ecosistema steppico e riassestare il meccanismo del permafrost. Siamo come sempre nel campo della geo-ingegneria, allo stadio di ipotesi e non di evidenze scientifiche, ma in assenza di alternative valide le proviamo tutte per mantenere i giganteschi depositi di anidride carbonica dell’Artico sottoterra.