Stanno sempre più diffondendosi i timori di inflazione, sicuramente negli Stati Uniti ma anche per l’Unione europea e a seguire per i maggiori Paesi mondiali e industrializzati. Solamente che nella discussione sui maggiori mezzi di informazione, e soprattutto sui social, la dimensione qualitativa del fenomeno, se non addirittura favolistica va a riempire il merito delle discussioni.
Ecco che allora si sente parlare a briglia sciolta della possibilità di iper-inflazioni, addirittura in stile Weimar (1921-22 Germania), confondendo termini e condizioni e anche ipotesi da parte di molti, sicuramente non stimati e stimabili da parte di chi scrive.
Atteniamoci agli ultimissimi dati mensili per l’Eurozona e gli Stati Uniti, che danno nel primo caso inflazione in linea di fatto al 2%, mentre nel secondo caso tra il 4% e il 5% (a seconda dell’indicatore utilizzato). C’è una maggiore pressione inflazionistica al momento negli Stati Uniti rispetto all’Eurozona, ma ciò è condito anche dal fatto che le stime di crescita degli Stati Uniti sono poste intorno al 6-6,5% annuo, mentre l’Eurozona è data intorno al 4%. Ci sono stati anche gli interventi nei giorni scorsi del Presidente Fed e di quello Bce che hanno confermato la spinta inflattiva; però il discorso dei due responsabili testé citati diventa maggiormente interessante nella dimensione quantitativa delle stime date.
Abbiamo per Powell (Fed) inflazione al 4,1% circa per il 2021, e al 2,5% e al 2,3% per il 2022 e il 2023, a fronte di tassi di crescita nominali del Pil (oppure Pnl) Usa intorno al 4-5% per i due anni considerati; in modo abbastanza sintetico e un po’ generalizzante si potrebbe affermare che per l’Eurozona queste stime vadano prese per l’80% delle loro indicazioni: quindi di fatto, l’Eurozona si muoverebbe sia per la stima inflattiva, sia per la stima di crescita del Pil per il 2022 e il 2023 con 1-1,5 punti percentuali in meno rispetto agli Stati Uniti.
Rispetto allo scenario illustrato nei suoi caratteri essenziali, se ne dissente; chi scrive pensa che non ci troveremo di fronte a un quadro di ipotizzata (e sospirata e desiderata) reflazione, bensì di fronte a quello di un’inflazione leggera ma non più transitoria, sebbene lo si rimarca leggera.
Nei numeri più immediati, il prossimo report di inflazione mensile Usa che dovrebbe essere pubblicato martedì prossimo (13 luglio 2021). Chi scrive lo stima su base annua al 6-6,2%, mentre l’attesa generalizzata del consesus di borsa di Wall Street probabilmente non supera come estremo superiore il 5,3% e come limite inferiore il 4,2%; tutto questo per le rassicurazioni di Powell sulla transitorietà dell’inflazione e sulla presenza di valori non imbarazzanti.
I mercati, finché le cose vanno bene, oppure detto in modo preciso, finché hanno grossa credibilità nelle stime delle autorità monetarie, nei loro scenari pongono come parametri fissi le stime delle anzidette autorità; i problemi vengono fuori quando le stime delle autorità monetarie vengono smentite dai fatti, e quindi perdono parte di credibilità, e per sequenza la formazione delle aspettative da parte degli operatori di mercato diventa convulsa e incontrollabile e quindi impegnativa se non pericolosa nel contenere i fenomeni inflattivi.
Comunque, anche alla luce del movimento di prezzo degli ultimi mesi della proxy più robusta nell’anticipare la comparsa di inflazione, e cioè il barile di petrolio (Wti e Brent), nonché dello stallo sulla produzione da concordare in seno all’Opec+ (l’informazione che si sta facendo girare è che è colpa degli Emirati Arabi che si stanno mettendo di traverso, quando invece il braccio di ferro e le decisioni sostanziali sono appannaggio del duo Arabia Saudita e Russia ), lo scrivente stima che si toccherà un picco possibile verso settembre/ottobre che lambirà l’8% annuo tendenziale di inflazione per poi a poco a poco rientrare, con valori, almeno per gli Usa, di un’inflazione al 5% medio nel 2022 e al 3,5% medio nel 2023; quindi in questo articolo si ipotizza la presenza per i prossimi due anni di inflazione leggera non transitoria, e quindi non reflazione.
Va anche però rimarcato per chiarezza espositiva che l’ambito di riferimento di tutti i valori finora elencati appartiene comunque a un certo genere: valori inflattivi armoniosi nelle visioni ottimistiche (autorità monetarie), valori inflattivi lievi/leggeri nelle stime qui presentate.
Per rendere infatti più chiaro questo intervento e cercare così di sgombrare il campo da tante voci allarmiste quanto ignoranti della materia (a parere di chi scrive) si elenca il seguente prospetto:
Inflazione fino al 2%: moderno concetto di reflazione.
Inflazione fino al 5%: lieve e anche transitoria negli effetti.
Inflazione fino all’8%: leggera/modesta e non transitoria.
Inflazione fino al 12%: moderata.
Inflazione fino al 15%: alta, è però importante questo valore limite del 15% per le sue ripercussioni sulla velocità della moneta, in quanto al di sopra di tale valore non è più agevole controllare tale indicatore da parte delle autorità monetarie, in quanto diventa fibrillante e asincrono con movimenti in controtendenza anche con le previsioni più accurate (questo aspetto è stato affrontato parzialmente in precedenti interventi).
Inflazione fino al 20%: severa.
Inflazione fino al 30%: molto alta.
Inflazione fino al 50%: altissima.
Inflazione dal 50% in su: Iper-inflazione.
Ora, come si vede dalla tabella esposta, una cosa sono i problemi e gli scenari che andranno affrontati con cautela e impegno da parte di tutti (cercando da parte di tutti di sbagliare il meno possibile), altra cosa sono gli scenari a tinte fosche e favolistiche di tanti demiurghi improvvisati sul web.
In sostanza, lo scenario inflattivo che si ha di fronte nei prossimi 3-4 anni è del tutto sotto controllo al ceteris paribus attuale, e le uniche cose che lo potrebbero far variare sono sempre le solite della storia dell’umanità: manifestazioni cataclismatiche di ogni genere e tipo, abbondantemente non previste dalla moltitudine, a dirsi, pandemie, guerre, catastrofi umanitarie, agricole, ecc.
Infatti, non è inutile a questo punto sottolineare ancora una volta il perché del petrolio come big Kahuna (il grande pesce) nello scatenare l’inflazione: qualsiasi materia prima di ogni ordine e specie per essere valorizzata e usata ha bisogno di energia, e come ribadito fino alla noia il petrolio dà il contributo energetico attualmente nettamente più importante rispetto a tutte le altre fonti energetiche, e anzi in numerosi casi (esempio auto e aerei) è addirittura ancora non sostituibile del tutto.
Solamente tre materie prime restano fuori dall’impero del petrolio, e fortunatamente ancora non danno problemi inflattivi: l’aria che respiriamo, l’acqua potabile e l’acqua di irrigazione; anche se non sono più beni così assoluti e svincolati come solo due secoli fa. Speriamo che non diventano mai materie prime effettivamente contendibili e perciò inflattive: non sarebbe più certamente bello il pianeta in cui dovessero manifestarsi in modo conclamato cose del genere.
Tanti accenni però già ci sono: la sete d’acqua dell’Africa, le migrazioni, la costruzione di dighe che per scopi energetici sottraggono acqua per gli usi potabili e agricoli. Sono indubbiamente argomenti, ancora assoluti, ma su cui sempre più si intravedono nuvolaglie sparse e scure (ambientaliste o meno). Speriamo di tenere aria che si respira e acqua potabile e agricola sempre fuori dalle discussioni sull’inflazione.
Comunque, ritornando ad argomenti più tecnici, un altro aspetto su cui si dissente dall’intervento del Presidente Fed è che la transitorietà del fenomeno inflattivo è spiegata da tante strozzature all’offerta dovute alla ripartenza post-pandemia e non sincronizzate; nessun distinguo su questo aspetto, però le strozzature all’offerta episodiche e transitorie non va dimenticato che sono un po’ come le pagliuzze incendiarie di un fuoco vero e robusto; se le fai tranquillamente propagare prima o poi iniziano a estendere l’incendio iniziale.
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