Tanto per stabilire un punto di riferimento che probabilmente è presente a gran parte di noi, possiamo far partire la “storia economica” recente dalla Grande Crisi Finanziaria (GFC) del 2007, anno in cui si verificò un fenomeno noto, ma mai visto su scala tanto grande: il prosciugamento del credito interbancario, cioè il venir meno di una pratica comune mediante la quale le banche prendono a prestito, e ricevono a prestito l’una dall’altra a seconda della sovrabbondanza, o necessità di liquidità che, per ragioni che non è utile discutere qui, ritengono di non dover chiedere alla banca centrale, o detenerla presso la banca centrale quando ne abbia in eccesso. La grande crisi del credito si estese subito all’economia reale, e anche le imprese non finanziarie produttrici di merci e servizi si trovarono in difficoltà: era l’inizio della Grande Recessione (GR).
Di fronte a quella recessione, di violenza mai vista dopo quella dei primi anni ’30, pur se non così forte come quella causata nel 2020 dalla pandemia, le autorità di politica monetaria reagirono nel modo in cui debbono: immissione di liquidità nel sistema bancario e spesa pubblica finanziata in disavanzo.
Concentriamoci sulla immissione di liquidità. Questa politica, avviata come sempre per primi dagli Stati Uniti, venne attaccata costantemente, anno dopo anno, dalla destra statunitense e dagli economisti che le erano vicini perché, a loro dire, l’espansione monetaria avrebbe creato inflazione (e, per buona misura, quello che chiamavano “svalutazione del dollaro”). Problema? Non solo non vi è stata inflazione, ma in alcuni periodi e alcuni Paesi abbiamo visto addirittura dei periodi di deflazione! E ciò non solo negli Stati Uniti, ma anche in Giappone e in Europa, nonostante la politica espansiva seguita anche in questi Paesi attuate ad esempio attraverso il famoso Quantitative easing.
Ecco, qui comincia la nostra storia. La reazione delle autorità di politica economica alla recessione indotta dalla pandemia all’inizio del 2020 è stata assai simile a quella del 2008, e la sua scala di molto maggiore: grandi iniezioni di liquidità nel sistema bancario per evitare difficoltà alle banche ma anche nella speranza che quella liquidità possa trovare la strade delle imprese produttive non finanziarie; e ancor più grandi stimoli fiscali a sostegno della capacità di spesa delle famiglie e dell’operatività delle imprese. E ancora una volta gli Stati Uniti sono il campione delle politiche espansive, come mostra il piano di spesa pubblica in disavanzo per 1.900 miliardi di dollari, il famoso Piano Biden, che il Congresso ha convertito in legge proprio settimana scorsa. E anche stavolta, come da copione, è partito il grido d’allarme: inflazione, inflazione, ci sarà inflazione!
Dobbiamo preoccuparci? O, come titola Bloomberg Opinion, dobbiamo prepararci a un’altra settimana di iperboli? Ma esiste un dibattito di livello su questa questione delle aspettative di inflazione?
Sì, esiste, e ciò che è interessante e importante è che esso è radicalmente diverso dalle lamentazioni repubblicane senza fondamento esternate durante la Grande Recessione, ma che esso ruota attorno alle posizioni di due grandi economisti, entrambi democratici! Da un lato, abbiamo Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia 2001 e City University of New York, il quale sostiene che il Piano Biden non è un piano di stimolo tradizionale, che in via teorica potrebbe generare pressioni inflazionistiche, ma un piano di salvataggio (Rescue Plan è il nome ufficiale del Piano Biden) del tipo di quelli conseguenti una guerra, più mirato a spese di sostegno alla popolazione che a stimolare la crescita; dall’altro, abbiamo Lawrence Summers, già ministro del Tesoro del Presidente Clinton e Presidente emerito della Harvard University, il quale invece sostiene che il Piano Biden ha comunque un potenziale inflazionistico e che per il suo finanziamento viene emesso debito che potrebbe e dovrebbe essere utilizzato nel secondo anno di presidenza per spese più classicamente espansive: esempio tipico, in infrastrutture.
Alle preoccupazioni di Summers, legittime ed espresse in buona fede, può essere contrapposta una messe di evidenza empirica non indifferente. Cominciamo con il dire che per inflazione si intende un aumento sostenuto e generalizzato dei prezzi. Ora, di questo fenomeno non vediamo traccia: ad esempio, i prezzi alla produzione in Italia, rilevati dall’Istat, registrano tra gennaio 2020 e gennaio 2021 aumenti molto, molto contenuti; e le rilevazioni dei prezzi al consumo nell’Eurozona non indicano aumenti superiori all’1%-1,5%, cioè ancora al disotto di quel 2% che per tanti anni ha costituito il miraggio della Bce e del suo Presidente! Certo, si osserva da mesi un sistematico aumento dei prezzi delle materie prime, metalli in particolare: ma, diciamo noi, è un aumento percentualmente non impressionante, nonostante sia calcolato sulla base dei prezzi stracciati di inizio 2020, e dunque niente affatto allarmanti a fronte di una ripresa che, Stati uniti e Cina a parte, ha più il sapore di un lento movimento di fuoriuscita dalla stagnazione che di una ripresa in senso proprio. Non a caso, il dibattito sulla potenziale vampata inflazionistica esplode negli Stati Uniti, per la cui economia si prevede nel 2021 un tasso di crescita eccezionale rispetto al 2020, qualcosa che in Europa ci sogniamo, per un 2% del quale, su un totale previsto del 6-7%, sarebbe responsabile il Piano Biden.
La controreplica di chi, in buona fede, percepisce un pericolo inflazionistico, è sintetizzata in questo modo: un processo inflazionistico comincia sempre così, con aumenti contenuti e sparsi tra le diverse categorie merceologiche e Paesi diversi, ma poi pian piano si scivola vero tassi di inflazione progressivamente più alti, e progressivamente più preoccupanti.
A questa preoccupazione si risponde in almeno due modi. Il primo è che l’esperienza storica, in particolare quella relativa agli anni ’70, mostra che l’inflazione è anche un fenomeno di classe: se a fronte degli aumenti dei prezzi non si erge la difesa dei salari reali da parte del sindacato, allora la debolezza storica del sindacato in questa fase rende l’ipotesi di inflazione poco realistica (questo fenomeno è nella memoria di molti come “inflazione salariale”). Il secondo è che le banche centrali hanno strumenti adeguati, e ormai sanno come usarli, per contenere gli effetti inflazionistici dell’approssimarsi dell’economia a livelli di piena occupazione.
Ma ora la discussione si fa veramente complessa. Dice chi ipotizza un aumento generalizzato e sostenuto dei prezzi: le banche centrali possono in realtà contrastare l’inflazione soltanto aumentando il tasso di interesse nominale in modo tale che il tasso di interesse reale (tasso nominale al netto del tasso di inflazione) aumenti, cioè spingendo per una recessione. Dopo aver spinto per una espansione!
La posizione personale di chi scrive? Come europeo, vorrei avere gli stessi problemi che discutono Krugman e Summers, cioè problemi di dimensionamento dello stimolo ed eventuali controindicazioni: ma tutto tace, da questo lato dell’Atlantico, in attesa del miracoloso piano Next generation Eu.