Mancano i fertilizzanti? Niente paura. Basta fare un passo indietro, rinunciando alle colture bio. È la soluzione proposta dal Ceo di Syngenta, il colosso svizzero delle sementi che fa capo alla cinese ChemChina.
“Di fronte alla minaccia di una crisi alimentare globale, è necessario rinunciare all’agricoltura biologica”, proclama Erik Fyrwald, amministratore delegato del colosso agrochimico basilese. Ma è davvero così difficile rinunciare al prodotto in arrivo dalla Russia?
Intanto sale la febbre sull’energia, da un lato vittima delle minacce di Mosca, dall’altro della fragilità del fronte europeo. Più che del prezzo del petrolio, però, meriterebbe occuparsi dell’aumento verticale dei derivati del greggio, a partire dal diesel che sta facendo la fortuna di Saras (+60% da inizio anno). A esplodere infatti è stato il prezzo finale dei derivati del petrolio. Non è un caso che le azioni delle raffinerie quotate su New York siano quasi raddoppiate dall’inizio dell’anno. Non solo dunque si estrae troppo poco petrolio rispetto alla domanda, ma sono sempre meno le raffinerie che lo lavorano. Con la prospettiva della transizione energetica molti raffinatori hanno chiuso impianti in Occidente. Possibile che nessuno annusi aria di business?
Cambiamo registro. Non è facile interpretare la complessa transizione del mondo a quattro ruote. Ma è difficile sottovalutare l’allarme di Carlos Tavares, il Ceo di Stellantis. “Il settore auto . ha detto – potrebbe soffrire di problemi di fornitura delle batterie intorno al 2025 e al 2026″. La richiesta di accumulatori sta crescendo rapidamente visto che le case automobilistiche si stanno concentrando sul lancio di modelli elettrici. Il mercato cresce, ma la richiesta di batterie è ancor più rapida. Con il risultato di aumentare la dipendenza dall’Asia, già privilegiata dall’egemonia sul fronte delle materie prime. Dunque, è necessario rendere l’Europa indipendente il più velocemente possibile sul fronte della produzione delle batterie. Ce la faremo? Oppure l’industria dovrà rivedere al ribasso le sue stime?
Tre casi diversi, ma con un aspetto comune: la prima cosa che viene in mente non è quella di aumentare l’offerta per venire incontro alla domanda. Ma attendere che il mercato trovi un suo equilibrio al ribasso. Senza mettere in moto investimenti che potrebbero rivelarsi prematuri. L’aumento del prezzo del petrolio, del resto, non ha portato alla riapertura dei pozzi di shale oil, così come auspicato dalla Casa Bianca.
La frenata degli investimenti produttivi non è un’esclusiva Usa. Una recente indagine dell’Istat dimostra che la crisi associata all’emergenza sanitaria ha ridotto pesantemente la propensione delle imprese a innovare. Il motore stenta ovunque a ripartire, in assenza di stimoli dall’Asia e sotto le tensioni indotte dalla guerra in Ucraina e le ricadute dell’economia mondo. I quattrini immessi nel sistema sono serviti solo ad alimentare l’inflazione, accompagnata da fenomeni inediti: il rifiuto del lavoro da parte di milioni di americani che, grazie ai sussidi, hanno abbandonato posizioni di lavoro precarie e mal pagate. O hanno riscoperto il sindacato, ferocemente osteggiato da Amazon, Starbucks e il resto della gig-economy che diffonde il precariato chiamandolo flessibilità.
È in questo clima che è maturato l’aumento dei tassi Usa: gli stimoli a pioggia durante la pandemia, lungi dal tradursi in investimenti, hanno gonfiato la domanda provocando inflazione, specie se accompagnata da un calo dell’offerta. Di qui la scelta di intervenire con un aumento dei tassi capace di mettere sotto controllo i prezzi anche a rischio di una recessione si spera breve.
Non è una bella notizia per l’Italia, alle prese con un debito pubblico attorno al 150% del Pil destinato a pesare di più se rallenta la crescita. A meno che, sull’onda del Pnrr, le aziende non vengano invogliate a investire su progetti in grado di mettere in movimento il risparmio privato.
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