Il Governo lunedì ha varato un nuovo tassello della riforma fiscale: dopo aver cambiato il regime sanzionatorio, infatti, è intervenuto sulla riscossione. In particolare, dal 2025 le rateizzazioni potranno arrivare fino a dieci anni nel caso di contribuenti in difficoltà economiche e con debiti superiori a 120.000 euro. In caso di debito fiscale di importo inferiore, il contribuente in difficoltà potrà comunque ottenere una dilazione del pagamento di almeno sette anni. Aumentano, quindi, le critiche all’Esecutivo da parte di chi vede nelle sue scelte sul fisco un regalo agli evasori. Per Nicola Rossi, Professore di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata e membro del cda dell’Istituto Bruno Leoni, «occorre però un chiarimento su cosa si intenda per evasori fiscali. Molti ritengono lo siano sia coloro che scientemente decidono di non pagare le imposte, sia coloro che per qualunque motivo non sono in grado di farlo e quindi omettono il pagamento o lo ritardano. Io credo che mettere insieme queste due fattispecie sia un errore capitale, soprattutto perché comporta come conseguenza un atteggiamento da parte del fisco che alla fine si rivela incapace di risolvere il problema».
Cosa intende dire?
Che ci ritroviamo con un magazzino fiscale di imposte non pagate che vale 1.200 miliardi di euro proprio perché non si è fatta distinzione tra coloro che coscientemente si propongono di non pagare le tasse, che sono i veri e propri evasori, e coloro che invece vorrebbero pagarle ma non sono in grado di farlo. In questo secondo caso, il buon senso vuole che il fisco si adoperi per mettere questi contribuenti in condizione di fare ciò che volevano fare, ovvero pagare le imposte. Pertanto, prevedere rateizzazioni più lunghe e tenere conto della situazione economica dei singoli è del tutto ragionevole, non è un aiuto agli evasori. Mi lasci aggiungere che questo errore capitale nasce da un’irragionevole pretesa.
Quale?
Quella che ci sia un contenuto morale nel pagare le tasse, quando si tratta semplicemente del corrispettivo per i servizi forniti dallo Stato. Questa idea morale del pagamento delle imposte, che va a braccetto con una concezione esclusivamente punitiva del fisco, di fatto ci accompagna da 25 anni.
È un’idea propugnata a livello politico principalmente dalla sinistra…
Non c’è dubbio, ma lo stesso atteggiamento è stato condiviso anche dal centrodestra almeno fino a due anni fa: non ricordo prima provvedimenti che effettivamente cambiassero il modo di vedere le cose. Ora si intravvede un primo timido cambiamento e lo considero molto positivamente, proprio perché può permetterci di arrivare a un rapporto fisco-contribuente più sano e in grado anche di recuperare le imposte non pagate. Deve essere ben chiaro che la concezione punitiva del fisco non ha prodotto risultati nulli, ma purtroppo negativi.
Principalmente la crescita dei crediti finiti nel magazzino fiscale. In questo senso l’idea del Governo è di cancellare le cartelle se non riscosse dopo cinque anni, anche prima in caso di fallimento o liquidazione dell’attività o in assenza di beni del debitore suscettibili di poter essere aggrediti. Cosa ne pensa?
In realtà, trascorsi i cinque anni i crediti resteranno, si potranno esperire altri tentativi di recupero, ma le cartelle non entreranno nel magazzino fiscale dell’Agenzia delle Entrate. Questo è del tutto ragionevole, perché già ora di quei 1.200 miliardi di crediti ce n’è una buona parte (il 40%) ormai irrecuperabile. È inutile tenerne conto. Un’azienda che tenesse vivo il credito che vanta da un soggetto fallito sarebbe di fatto passibile di falso in bilancio. Non sarebbe giusto che anche lo Stato riconoscesse che nei suoi conti c’è un credito che non esiste più?
Cosa pensa, invece, dell’intervento sulle sanzioni fiscali? Si passerà dal 240% al 120% per l’omessa dichiarazione e vi saranno sanzioni fisse al 70% per l’infedeltà della dichiarazione al 60% sul fronte Iva, quando con quelle variabili si poteva arrivare rispettivamente al 180% e al 240%.
È il minimo che potessimo fare. Che il regime sanzionatorio italiano fosse folle lo dimostra il fatto che si sono dovute varare quattro rottamazioni delle cartelle, consistenti di fatto nell’eliminazione delle sanzioni, che, così elevate, rendono impossibile il loro pagamento, oltre a quello delle imposte dovute. Il danno al bilancio dello Stato che ha creato la cultura punitiva del fisco lo misureremo negli anni e qualcuno dovrebbe essere chiamato a risponderne.
Poc’anzi ha detto che con i provvedimenti varati dal Governo si intravede un cambiamento positivo sul fronte fiscale. Quali altri passi servono?
Secondo me, bisogna ridurre ulteriormente le aliquote in molte delle direzioni prefigurate nella riforma che è stata varata, che in larga misura trovo condivisibile.
Bisognerà fare in modo che questa riduzione non sia finanziata in deficit visto che ora c’è da passare dal 7,2% del Pil del 2023 al 4,3% entro fine anno.
Sono d’accordo. È chiaro che buona parte di quello che è accaduto nel 2023 è la conseguenza di scelte irresponsabili fatte negli anni precedenti, ma è evidente che non possiamo permetterci debito ulteriore. Le nuove regole del Patto di stabilità prevedono una certa flessibilità per i primi tre anni, che chiaramente vanno usati in maniera molto ragionevole.
Secondo lei, sarà necessario varare una manovra correttiva quest’anno?
Non saprei. Personalmente penso che sarebbe meglio mettere le carte in tavola in occasione dei prossimi appuntamenti relativi alla presentazione del Def e della Nadef e chiarire esattamente quale sarà il percorso della finanza pubblica nel 2024-25. In ogni caso il vero punto è che se ritorniamo a crescere in misura significativa, o almeno quanto la media europea, dopo il 2026, allora il bilancio pubblico può assumere una dimensione sostenibile, altrimenti avremo problemi molto seri.
Tornare a crescere dipende totalmente da noi?
In larghissima misura sì. Dipende molto da come stiamo usando e useremo le risorse del Pnrr, ma soprattutto da un cambiamento culturale importante.
A che cosa si riferisce?
Si continua a pensare che si possa crescere solamente grazie agli investimenti e alla spesa dello Stato, ma nessun Paese è mai cresciuto solo per questo motivo. Se la gente non si rimbocca le maniche e non decide che deve lavorare perché vuole crescere, non c’è Governo che tenga: si può spendere in tutti i modi, ma il risultato sarà sempre deludente. Il punto di fondo è che l’Esecutivo riesca a mobilizzare il desiderio privato di crescere, di stare meglio, di fare di più per sé e la propria famiglia. Purtroppo su questo fronte siamo ancora indietro, la cultura imprenditoriale in Italia annaspa: creiamo poche imprese e quindi non si capisce chi dovrebbe fare la crescita che tutti auspichiamo.
Questa situazione non cambierebbe nemmeno con incentivi all’imprenditorialità?
Ma si figuri, abbiamo avuto dei periodi che hanno segnato la crescita di questo Paese che non avevano niente a che fare con il ruolo del Governo, con le incentivazioni o cose simili, che nell’ultimo decennio hanno avuto solo risultati tragici dal punto di vista del bilancio pubblico e prodotto fuochi di paglia sul fronte della crescita.
Torniamo un attimo indietro: come si può finanziare la riduzione delle aliquote fiscali, che al momento non è strutturale?
Continuo a pensare che la prima fondamentale modalità di finanziamento stia nel disboscamento della foresta di spese fiscali che abbiamo messo in piedi negli ultimi anni e che comportano profonde distorsioni nei comportamenti dei contribuenti. Con tutta probabilità un intervento di questo tipo non sarebbe sufficiente a reperire le risorse necessarie e occorrerebbe, quindi, procedere anche a una revisione significativa della spesa pubblica.
(Lorenzo Torrisi)
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