Ho sempre avuto un debole per Irene Grandi fin dai tempi di “Un motivo maledetto” primo successo di una lunga fila a venire della cantante toscana. Il mix offerto da questa artista è più o meno lo stesso a partire dagli esordi nei primi anni Novanta: pop/rock insieme melodico e grintoso unito a una presenza scenica di assoluto rilievo.
Altro elemento di continuità da segnalare sono sicuramente le continue collaborazioni dell’artista con autori più o meno famosi del panorama musicale italiano: Vasco, Ramazzotti, Jovanotti tra quelle famose, Benvegnù e Bianconi tra quelle un po’ meno. E non si può che partire da quest’ultimo, Francesco Bianconi leader del gruppo Baustelle, per parlare del nuovo album di Irene.
Il connubio tra i due si è venuto a creare qualche anno fa con la canzone Bruci la città che nonostante abbia mostrato al pubblico una Irene Grandi leggermente diversa dal solito è risultato essere il successo dell’estate 2007. I due, probabilmente rassicurati dal consenso raggiunto in quella occasione, hanno deciso di presentare la loro seconda iniziativa sul palcoscenico musicale più rilevante d’Italia, il teatro dell’Ariston durante il Festival della Canzone Italiana di Sanremo.
La cometa di Halley, titolo della canzone e singolo dell’album è già diventato un piccolo successo e staziona nei piani alti delle classiche sia di vendita che radiofoniche oltre ad essere a mio avviso il miglior pezzo della manifestazione canora di quest’anno. Il valore di quest’ultima si può riassumere semplicemente nella capacità di essere molto orecchiabile ma non per questo banale, soprattutto giocando su un testo amaro, ironico e che si presta a diversi gradi di lettura come quasi sempre succede del resto con i racconti di Bianconi.
Il resto dell’album non si conferma purtroppo su questo standard ma ci rivela una Irene Grandi sicura delle proprie qualità e con la voglia di osare anche in direzioni meno consuete. Niente di stravolgente ma in canzoni come Tutti più felici, L’amore che viene e che va e la canzone che da il titolo all’album “Alle porte del sogno” l’utilizzo più massiccio dell’elettronica nelle basi risulta gradevole e in qualche modo leggermente spiazzante per chi conosce solo i pezzi più famosi della cantante.
Discorso a parte lo merita la canzone più estrema della lista Strada serrata dove la Grandi si cimenta in una sorta di pseudo rap su una base realizzata quasi esclusivamente dal sintetizzatore e da una drum machine: risultato dell’operazione decisamente interessante. Onde nere e Intendevi faranno felici invece tutti i fan delle ballate classiche di questa artista dove la sua voce roca la fa da padrona e gli arrangiamenti risultano più rilassanti e classici.
Anche l’altra collaborazione importante dell’album, quella con Gaetano Curreri degli Stadio, gioca con suoni più sintetici del solito ma resta in perfetto stile Irene Grandi nel risultare evocativo e cantabile. I testi semplici e diretti delineano un’artista che ha ancora voglia di raccontarsi in chiave personale mettendo a nudo le proprie fragilità e le proprie vicissitudini: dal tema comune dell’amore presente in quasi tutti i pezzi dell’album l’artista cerca di affrontare anche altre domande fondamentali quali il passare del tempo, la possibilità di superare il dolore e addirittura nella canzone Greensburg una sorta di lettura poetica/fantascientifica sulla nascita del genere umano.
In chiusura non si può che ammettere che Irene Grandi rimane una delle artiste italiane più sincere e combattive nel cercare di dare al suo percorso artistico sempre nuova linfa provando a confrontarsi per quanto gli è possibile con strade che potrebbero essere meno rassicuranti sul piano commerciale ma che probabilmente rispondono all’urgenza di dare sempre maggior qualità alle proprie “canzonette”.
E io personalmente continuo ad avere un debole per lei.
(Simone Nicastro)