In questi primi dieci anni del nuovo millennio (i cosiddetti Anni Zero) la musica italiana ha fatto registrare vendite sempre più misere, i soliti nomi sulla breccia e il lancio di alcuni fenomeni passeggeri provenienti dai talent show.
A livello un po’ più “sotterraneo” sono invece usciti album di assoluto valore che solo qualche anno prima avrebbero avuto sicuramente più visibilità e fatto scoprire a molte persone che ci sono strade alternative a quello che viene propinato solitamente, che l’orecchio come il cuore se gli si dà la possibilità si affina e soprattutto che la colonna sonora della nostra vita può essere più incisiva di quanto avessimo mai immaginato anche nella nostra lingua madre.
“In decade italiana” cercherà con molta umiltà di parlarvi di alcuni dischi italiani usciti negli anni 2000-2009 a cui a mio modesto parere dovreste dare almeno una possibilità. Sono stato in dubbio fino alla fine sulla scelta del primo album, per poi decidermi su “Piccoli Fragilissimi Film” di Paolo Benvegnù.
Benvegnù è stata la mente dietro agli Scisma, gruppo culto degli anni Novanta che ha avuto un secondo di popolarità col singolo e album “Rosemary Plexiglas”. Dopo diverso tempo, nel 2004, esordisce col suo primo disco solista e per molti si tratta di una vera sorpresa: l’album mostra pochissimi collegamenti col quelli dell’ex gruppo di appartenenza per sposare a sorpresa una forma canzone quasi cantautorale.
L’atmosfera che si respira è intima e sommessa tra chitarre classiche, pianoforte, orchestrazioni minimali e percussioni accennate. Tutto molto riflessivo anche per le tematiche toccate e l’uso ricercato delle parole.
In apertura subito qualcosa di straordinario: Il mare verticale (recentemente coverizzata da Marina Rei) è il manifesto dell’album con il suo clima sofferto, amaro e profondo. Sul pianoforte in primo piano la voce ci racconta di quanto possa far molto male cercare di comprendere e fermare il senso di quello che accade nella vita. E il dolore è così tangibile che in qualche modo si simpatizza subito con l’autore.
A cosa servono le canzoni pop se non a dire qualcosa che sappiamo, appartenerci con una bellezza e una semplicità superiore di quanto siamo capaci noi stessi. Ascoltate la sintesi perfetta di Cerchi nell’acqua: «Il tuo viso, le mie mani sono la stessa gioia immensa». Nel terzo pezzo Benvegnù rallenta ancora di più il ritmo: Io e te si stende lentamente a sorreggere poche parole che fermano l’attimo più intenso del rapporto di coppia, il momento in cui si ha coscienza che neanche il tempo, il “deserto” del quotidiano e la paura di essere visti come realmente siamo potrà mai cambiare quella bellezza misteriosa accaduta.
Con Il sentimento delle cose i giochi si chiudono definitivamente in anticipo: l’incedere e l’intrecciarsi di tutti gli strumenti utilizzati nell’album creano una canzone senza tempo in cui uno dei testi più belli della musica italiana si imprime per sempre nella mente e nel cuore dell’ascoltatore. E solo lo stupore rimane. Non si può aggiungere nient’altro.
Quasi consapevole dell’apice raggiunto a seguire l’autore gioca con il suo enorme talento, divertendosi ad abbassare i toni e regalandoci prima una canzone come Fiamme di andamento quasi prog, ermetica e sognante anche a livello testuale, poi inserendo il pezzo più pop/rock dell’opera Suggestionabili, dove le chitarre e la batteria aumentano il volume accompagnate da una sorta di invettiva contro la superficialità.
Brucio è una piccola operetta da camera, essenziale nei suoni e interpretata con intensità toccante dal punto di vista vocale. Prima di Bianconi Irene Grandi aveva già deciso di utilizzare autori della scena indipendente tra cui il nostro: È solo un sogno è una ballata classica con un giro di chitarra omogeneo e inserti di orchestrazione per sorreggere una piccolo quadretto sentimentale.
Avvicinandosi al traguardo Benvegnù si confronta con altri due ambiti (abiti) indispensabili per un album con tentazioni (inconsapevoli probabilmente) da cantautore: Only for you è un chiaro omaggio ai primi Beatles e Quando passa lei la classica elegia in formato Bindi o Tenco senza la pomposità dell’epoca. Ma è l’ultimo atto che chiude veramente il cerchio: Catherine è una di quelle canzoni in cui non si può che trattenere il respiro per ascoltare una storia quasi del tutto esplicita nel farci provare lo stesso dolore della protagonista, una notte per lei che durerà una vita e pochi minuti per noi da contemplare. Raggiungendo nel finale un climax commovente.
Concludo scusandomi per aver incentrato maggiormente l’analisi più sul contenuto che sulla forma dell’album; il motivo è che sono passati sei anni dall’uscita di “Piccoli fragilissimi film” ma la forza evocativa e la capacità empatica di queste undici canzoni non solo non è diminuita ma dimostra ancora con più prepotenza quanto Benvegnù sia uno straordinario lettore dell’anima umana e delle dinamiche del cuore. Almeno del mio.
(Simone Nicastro)