Non ho amato tutto della new wave ma sicuramente molto di più di qualsiasi altro genere musicale ascoltato (o pseudo genere visto l’indubbia varietà di quella fase). Ancora oggi ad esempio penso a Robert Smith come a un marziano che non ha salvato il pianeta per colpa di un potere scorretto. Ma devo ammettere che al contrario della maggioranza dei puristi del caso non ho disdegnato il revival (edulcorato di molto in realtà) che in questi ultimi anni hanno compiuto, con un discreto successo, un numero imprecisato di band.

Credo che i primi album di Editors, Franz Ferdinand e Block Party siano stati preziosi e ben costruiti per ricreare una certa atmosfera senza risultare delle pure e semplici copie. Ma credo che nessuna band come gli Interpol del primo album “Turn on the Bright Lights” abbia centrato quel bersaglio con altrettanto precisione di classe e contenuto. Chitarre abrasive, percussioni spezzate, canzoni tirate all’estremo e quella voce così scura, così simile a Ian Curtis da suscitare in tantissimi un senso di nostalgia misto a gioia.

E forse proprio per questo gli Interpol sono diventati un gruppo da coccolare, da segnalare ai più, da ascoltare sempre e comunque con un leggero pregiudizio positivo. Purtroppo di anni ne sono passati otto ormai e le cose sono andate un po’ diversamente da come avremmo voluto. Se in quel primo album sembrava racchiudersi un’urgenza significativa, una sorta di speranza che dalla quasi emulazione fuoriuscisse la rabbia e la delusione di questa nuova generazione, oggi sfortunatamente possiamo sostenere che così non è stato.

I dischi successivi non solo si sono allontanati da quel percorso ma hanno pian piano dimenticato il centro del problema: la musica ha a che fare con qualcosa di più dell’ascolto piacione, il ballo/salto serale e l’adulazione dei teenager vestiti di nero; soprattutto se il rock che fai trae ispirazione da gente che proprio di tutto questo voleva fare un sacro fuoco e immolare quelle stesse macerie alla disperazione di una quotidianità dolorosa e un futuro quantomeno oscuro.

Certo ci sono state canzoni degli Interpol decisamente belle, calibrate e indovinate ma proprio quest’ultimo album ci ha decisamente deluso. Anticipato da comunicati stampa con le dichiarazioni degli autori di un ritorno alle prime sonorità del gruppo, la decisione programmatica di intitolare l’album semplicemente “Interpol”, il ritorno a un’etichetta indipendente, insomma tutto sembrava presagire qualcosa di buono.

Invece qualche perplessità è sorta subito con il primo singolo Barricade, canzone costruita tra una batteria incalzante, un basso potente, una elettricità divertente dove però il ritornello disorienta nell’essere a metà tra inno indie e stonatura pacchiana. Comunque abbastanza piacevole.

 

 

 

 

Purtroppo mai avremmo immaginato risultasse tra le cose migliori del lotto; l’apertura del disco Success con un giro di chitarra radiofonico, voce in primo piano e inserti a scalare per raggiungere il climax con coretto pop annesso è un colpo difficile da digerire. E purtroppo da qui è un lento discendere: Memory Serves ballatona finto triste anonima, Lights psichedelica per 30 secondi e pomposa per tutto il resto, Safe Without dove ci sono tutte le cose giuste al posto giusto e pure la dimentichi appena finita.

Qualche margine di sufficienza lo si può trovare nell’amarezza lugubre di Always Malaise (The Man I Am) e nell’atmosfera giocosa/marziale di Summer Well per poi di nuovo sprofondare nell’inconsistenza della doppietta finale All Of The Ways e The Undoing.

Gli Interpol hanno strumenti e capacità adeguate al compito ma sembrano più preoccupati di confezionare il prodotto per le esigenze del loro pubblico piuttosto di scrivere le canzoni. Probabilmente questa attitudine sarà premiata dalle vendite, ma raramente si è percepito una tale distanza tra ciò che un gruppo potrebbe realizzare e quello che alla fine concretizza.

(Simone Nicastro)