Dopo essermi soffermato sulla questione del trasferimento alla Bce delle riserve auree delle banche centrali nazionali, tra cui anche la Banca d’Italia, quali altre affermazioni contenute nel parere della Banca centrale europea mi lasciano perplesso? Passo in rassegna, nell’ordine seguito dalla stessa Bce nella stesura del parere.



A) La Bce ritiene importante che l’articolo 5, commi 1 e 2, del decreto legge 133/2013 non siano abrogati. In effetti, per le stesse considerazioni formulate dall’istituto, non vi ravvedo motivi logici o pratici per il mantenimento di detti commi. Lo Statuto stesso della Banca d’Italia ha sempre garantito la piena autonomia e indipendenza degli organi responsabili, Governatore e Direttorio, rispetto ai soggetti che ne avevano la proprietà e, addirittura, rispetto ai soggetti che li rappresentavano, Assemblea dei partecipanti e Consiglio superiore.



B) Secondo la Bce, “la proposta di legge sulla struttura proprietaria della Banca d’Italia abrogherebbe una disposizione in forza della quale il ministro dell’Economia e delle Finanze non ha il potere (come invece previsto da una legge del 1910) di sospendere e annullare le deliberazioni del Consiglio superiore ove il ministro le ritenga contrarie alle leggi, ai regolamenti e agli statuti. La Bce chiede che siano forniti chiarimenti sull’abrogazione di tale disposizione. In generale, la Bce sollecita le autorità italiane a valutare attentamente i possibili effetti diretti o indiretti indesiderati della proposta di legge sulla struttura proprietaria della Banca d’Italia sull’indipendenza della Banca d’Italia come sancito dall’articolo 130 del Trattato”.



Al riguardo, rilevo che il ministro dell’Economia e delle Finanze, qualora gli venisse riconosciuto il diritto di sospendere e annullare le deliberazioni del Consiglio superiore nel caso le ritenesse contrarie a leggi, a regolamenti e allo statuto, eviterebbe il compimento di atti illeciti. Nè è possibile ravvisare in tale comportamento un’ingerenza sull’indipendenza istituzionale di cui all’articolo 130 del Trattato e all’articolo 7 dello Statuto del Sebc, in quanto il Consiglio superiore della Banca d’Italia non ha alcuna attribuzione su dette materie, tutte di esclusiva competenza del Governatore e del Direttorio della Banca d’Italia.

C) La proposta di legge abrogherebbe altresì l’articolo 4, comma 1, decreto legge 133/2013, ai sensi del quale la Banca d’Italia è indipendente nella gestione delle sue finanze. La Bce evince che l’abrogazione di tale disposizione sia involontaria, attesa la rilevanza dell’indipendenza finanziaria nel quadro del principio di indipendenza delle banche centrali ai sensi dell’articolo 130 del Trattato. Si raccomanda pertanto il ripristino dell’articolo 4, comma 1.

In merito, osservo che il decreto legge in questione, del quale viene chiesto il ripristino del comma, risale all’anno 2014. Pertanto secondo l’auspicio della Bce, la Banca d’Italia avrebbe operato con indipendenza nella gestione delle sue finanze solo a partire da detto anno, cioè da appena cinque anni. Direi piuttosto che, invece, dovrebbe auspicare la sua abolizione, atteso che, se la Banca d’Italia deve essere indipendente nella gestione delle sue finanze, dovrebbe poter operare asimmetricamente rispetto alle stesse decisioni della Bce; guarda caso, i problemi dell’Italia sono andati aggravandosi proprio da quando l’operato della Banca d’Italia è stato via via più aderente a quello del Sebc.

Nel parere è scritto che “Una serie di disposizioni vigenti della normativa italiana abrogate dalla proposta di legge sulla struttura proprietaria trova corrispondenza nello Statuto della Banca d’Italia. Alcune delle corrispondenti disposizioni dello Statuto della Banca d’Italia confliggono direttamente e potenzialmente con le disposizioni della proposta di legge. In particolare, lo Statuto della Banca d’Italia dispone, tra l’altro, che:

1) le quote di partecipazione al capitale possono appartenere solamente a banche, imprese di assicurazione e di riassicurazione aventi sede legale e amministrazione centrale in Italia, fondazioni, enti ed istituti di previdenza ed assicurazione aventi sede legale in Italia e fondi pensione;

2) nessun partecipante può possedere, direttamente o indirettamente, una quota del capitale superiore al 3% e per le quote possedute in eccesso non spetta il diritto di voto;

3) la Banca d’Italia, a determinate condizioni, può acquistare temporaneamente quote del proprio capitale.

Parrebbe tuttavia che le disposizioni della proposta di legge relative all’acquisto da parte del ministero dell’Economia e delle Finanze delle quote di partecipazione della Banca d’Italia attualmente detenute da soggetti privati e che dispongono che, dopo tale trasferimento, il ministero dell’Economia e delle Finanze possa cedere, eventualmente, le proprie quote solamente a soggetti pubblici, confligga direttamente con la disposizione dello Statuto della Banca d’Italia di cui al punto 1) che precede e contraddica potenzialmente le disposizioni dello Statuto della Banca d’Italia di cui ai punti 2) e 3) che precedono. La proposta di legge tace in merito ai possibili criteri per la risoluzione del conflitto normativo, che dovrebbero essere contemplate nella proposta di legge. Si invitano le autorità italiane ad affrontare espressamente tali conflitti normativi diretti e potenziali a fini di certezza giuridica, al fine di evitare che essi incidano negativamente sul regolare funzionamento della Banca d’Italia”.

Richiamo la circostanza che lo Statuto originario della Banca d’Italia era perfettamente in linea con la legge bancaria del 1936, che prevedeva la possibilità di partecipare al capitale dell’istituto di emissione esclusivamente a enti pubblici, con la sola eccezione delle banche di interesse nazionale, cioè di quelle banche facoltizzate dalla stessa Banca d’Italia ad operare in almeno 30 province, ma queste erano società per azioni di proprietà esclusiva dell’Iri, quindi anch’esse nell’orbita pubblica.

Poi, successivamente all’azione di svendita delle proprietà pubbliche, l’istituto di emissione si è trovato con soggetti divenuti privati che, in contrasto con la legge e le previsioni statutarie, ne avevano conservato la proprietà e avevano iniziato a contestare l’azione moralizzatrice dell’organo di vigilanza, anche ricorrendo all’autorità giudiziaria, prevalentemente con esito negativo. La discordanza fu sanata sia con la modifica del quadro legislativo, sia con la modifica dello Statuto.

Questa anomalia non è stata oggetto di critica da parte della Banca centrale europea, né da altra autorità sia italiana che straniera. Chissà perché adesso nel parere viene chiesto di esplicitare che, ovviamente, lo Statuto della Banca d’Italia debba adeguarsi alla nuova normativa di legge, imponendo agli azionisti privati di disfarsi quanto prima delle quote di partecipazione senza consentire che venga trovata una soluzione all’unico punto nodale della nazionalizzazione, e cioè come possa essere colmato, per le banche proprietarie, il divario tra valore di bilancio delle quote e il ripristino del valore nominale originario. Proprio perché la differenza esiste tra valore di bilancio e valore nominale, appare chiaro che tale diversità potrebbe essere addirittura irrilevante, magari a seguito di successive trattative.

E) Riprendo il progetto dell’interpretazione autentica sulla proprietà delle riserve auree perché la Bce, oltre a non desiderare ciò che invece viene consentito ad esempio alla Banca di Francia, cioè che detta banca centrale nazionale sia di proprietà pubblica e che le riserve auree e valutarie siano rimaste di proprietà dello Stato francese, attraverso un giro di parole vuole portare l’interlocutore a convenire che la detenzione e la gestione delle “riserve in valuta estera include tutte le azioni necessarie per l’effettivo adempimento del mandato dell’Eurosistema”, per cui “affinché le attività di riserva assolvano la loro funzione nelle operazioni di gestione delle riserve in valuta estera, l’aspetto del pieno ed effettivo controllo da parte della banca centrale è essenziale. Ciò implica la capacità delle BCN di adottare decisioni, in completa autonomia, relative alla gestione, alla conservazione, alla disposizione, alla negoziazione e alla gestione quotidiana, nonché a lungo termine, delle risorse in valuta estera”, ma non fa alcun cenno che a questo dovrebbe seguire l’obbligo di rendicontazione e l’assunzione delle conseguenti responsabilità e gli eventuali risarcimenti dei danni arrecati da operazioni improvvide.

Non solo, ma nel parere aggiunge che il fatto che la proposta di legge preveda che la Banca d’Italia agisca “esclusivamente” in qualità di depositario possa essere inteso come un limite o addirittura un’esclusione per la Banca stessa dal potere di adottare decisioni indipendenti relative alla detenzione e alla gestione delle riserve ufficiali.

Mi chiedo cosa avrebbe detto se, invece, la legge avesse previsto il risarcimento dei danni; la richiesta della Bce mira a cancellare “il riferimento alla Banca d’Italia che gestisce e detiene le riserve auree ad esclusivo titolo di deposito” e a pretendere un esplicito riferimento alle disposizioni degli articoli 127, paragrafo 2, e 130 del Trattato nonché, inoltre, all’articolo 31 dello Statuto del Sebc, pur mettendo le mani avanti affermando che tali disposizioni trovano comunque applicazione.

In altre parole, è come affermare che se dovessero essere arrecati i danni, il risarcimento vada versato non al danneggiato, ma al danneggiante. Infatti, in tale sede, il parere insiste nel comprendere le riserve auree nelle riserve in valuta estera e che le stesse debbano essere iscritte nello stato patrimoniale della BCN o della BCE, corroborando l’appropriazione indebita dell’oro avvenuta lungo il corso degli anni e pervenendo addirittura ad affermare che “un trasferimento delle riserve in valuta estera (comprese le riserve auree) dallo stato patrimoniale della Banca d’Italia allo Stato eluderebbe il divieto di finanziamento monetario ai sensi dell’articolo 123 del Trattato, che vieta alla banca centrale di finanziare il settore pubblico e contrasterebbe altresì con il principio di indipendenza finanziaria ai sensi dell’articolo 130 del Trattato, quando essa stessa non ha eccepito nulla sugli aiuti di Stato praticati a favore delle banche italiane di proprietà straniera fatti attraverso l’aumento del valore nominale delle quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia.

Con l’ultima notazione, però, la Bce si contraddice, affermando che “la Bce osserva che ove le autorità italiane considerino necessario chiarire l’interpretazione della normativa in vigore in merito alla proprietà giuridica delle riserve auree, la Banca d’Italia deve essere consultata al fine di assicurare che i requisiti imposti dal Trattato, e in particolare l’indipendenza della Banca d’Italia stabilita dall’articolo 130 del Trattato, continuino a essere rispettati”; anche se questa consultazione può essere intesa come tendente ad ottenere l’assoluzione dal reato di appropriazione indebita. In effetti, bisogna considerare che un’appropriazione indebita ancora più grave si è avuta con la firma dei trattati in argomento, in quanto essi non potevano essere sottoscritti in relazione allo specifico dettato della Carta costituzionale italiana, che prevede solo la possibilità di limitazioni alla sovranità, purché avvengano alle stesse condizioni degli altri contraenti; inoltre, tali accordi non rispettano né il concetto di limitazioni, perché si è avuta l’integrale cessione della sovranità monetaria, né quello delle medesime condizioni, atteso che ad alcuni contraenti è stato concesso di conservare la propria moneta ovvero la prevalenza della carta costituzionale rispetto alla normativa europea.

Sottoscrivendo quei trattati il Tesoro dello Stato ha subìto sia l’impossibilità di emettere la quantità di moneta desiderata (l’Italia ha emesso circa un decimo delle monete emesse dalla piccola Austria), sia il mancato incasso dell’1% del circolante in euro prima corrisposto dalla Banca d’Italia, la quale ha dovuto rinunciare all’8% delle nuove emissioni a favore della Bce.

(2 – fine)